PALERMO -«Meschino». A pochi giorni dal 27° anniversario della strage di via d’Amelio, Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, risponde a tono e senza usare mezzi termini alle accuse lanciate alla sua famiglia dal procuratore aggiunto di Catania Carmelo Petralia, oggi indagato dalla procura di Messina (insieme al magistrato Annamaria Palma) per il presunto depistaggio dell’inchiesta su via d’Amelio. «Petralia è di una meschinità umana veramente estrema – dice all’Adnkronos – Lo ha rivelato accusando Fiammetta di non essere stata presente il giorno dell’assassinio di suo padre e me di non aver detto nulla di utile al processo di Caltanissetta».
«Rimproverare Fiammetta come se avesse dovuto sapere il giorno in cui suo padre sarebbe stato ammazzato è di una meschinità incredibile, non ci sono altre parole – aggiunge il fratello del giudice – E’ stato Paolo a volerla allontanare, così come aveva fatto con gli altri figli per cercare di abituarli alla sua assenza».
La famiglia del giudice, Rita Borsellino a parte, secondo il pm che indagò sulla strage di via d’Amelio, sarebbe stata “assente”. Un’accusa che Salvatore non è disposto ad accettare. «Ho ribadito più volte che non ero a Palermo da 23 anni e che non avrei potuto portare alcun elemento utile visto che in quei giorni non ero fisicamente vicino a mio fratello» dice. Una pausa e aggiunge: «A meno che Petralia non volesse che dicessi di avere visto Scarantino portare una macchina in via d’Amelio in maniera da avallare quel depistaggio che in quei giorni veniva messo in atto, che lui come pubblico ministero ha avallato e di cui deve rendere conto».
Un depistaggio “di Stato” a cui Salvatore Borsellino ha sempre creduto, «anche anni prima che si cominciasse a parlare di trattativa». Un depistaggio «cominciato nel momento in cui qualcuno, qualche minuto dopo la strage, ha sottratto l’agenda rossa dalla macchina di Paolo».
Il fratello del giudice non ha dubbi a parlare di «mani di funzionari di uno Stato deviato» ed è convinto che «le ultime parole di Paolo» siano nascoste «negli archivi grondanti sangue di qualche inaccessibile palazzo di Stato e non certo nel covo di criminali mafiosi»
«Quella del 19 luglio 1992 – sottolinea – è stata una strage di Stato e per coprire le responsabilità è stato ordito un vergognoso depistaggio di Stato che per 27 anni, e forse ancora per anni, ha allontanato il corso della giustizia».
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Agli occhi del fratello del giudice Borsellino non ci sono e non c’erano dubbi. Anche sul falso pentito Vincenzo Scarantino. «Era evidente a tutti – dice – anche agli stessi mafiosi che rigettavano il fatto di aver affidato a un balordo come Scarantino l’esecuzione di una strage di quel tipo… allora o sono imbecilli questi magistrati oppure c’è stato un dolo».
«Tinebra (procuratore di Caltanissetta dal 1992 al 2001 morto nel 2017), se esiste una giustizia, divina dovrà rendere conto a Lui – prosegue Salvatore Borsellino – ma i magistrati ancora in vita che hanno avallato questo depistaggio devono rendere conto alla giustizia».
Dai pm alle istituzioni. Perché di cose volutamente non dette e di “segreti”, secondo il fratello del giudice, ce ne sono ancora tanti. Come l’ex pm Giuseppe Ayala che qualche giorno fa ha deposto a Caltanissetta al processo sul depistaggio delle indagini di via d’Amelio. «Non ricordare può anche essere umano ma dare dieci testimonianze diverse della stessa cosa non è normale» afferma il fratello del giudice che non ha dimenticato quando l’ex magistrato parlando di lui disse: «Chi il fratello di Paolo Borsellino? Io non ho esperienza di fratelli, ma so che anche Abele ne aveva uno».
E poi l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che «è stato il garante del silenzio sulla trattativa, colui che ha fatto distruggere quelle intercettazioni che avrebbe dovuto pretendere che tutti ascoltassero per fugare ogni dubbio sul fatto che potesse aver promesso impunità a un imputato». Non cambia di molto, secondo Salvatore Borsellino, neanche la desecretazione delle audizioni del giudice decisa dalla commissione Antimafia. «Più che una desecretazione – dice – è rendere pubblici dei documenti che fino ad ora erano di difficile accessibilità. Non è quello che il ministro Bonafede aveva promesso proprio in via d’Amelio. Ogni tanto mi danno un pezzo di mio fratello ma non ce ne facciamo nulla: devono togliere i sigilli a tutti i vergognosi segreti di Stato ancora esistenti».
Una strada ancora “lunga” quella per la verità ma che Salvatore Borsellino non intende smettere di percorrere. «Anche se so che è una cosa difficilissima – dice – continuerò a combattere fino all’ultimo perché la verità venga alla luce e non indietreggerò davanti a niente».
La sua «lotta per la giustizia», a pochi giorni dal 27° anniversario della strage, continua da Palermo, dal 19 luglio, da via d’Amelio, dove, sottolinea facendo un riferimento alle “passerelle” del 23 maggio, «si viene da semplici cittadini. Le istituzioni – conclude – se vengono in ginocchio a portare l’agenda rossa possono anche venire».