CATANIA – Il dissesto, le alluvioni e poi il sisma, ed in più i problemi di tutti i giorni di una città e di un’area, quella etnea, che fatica e arranca avvolta da una crisi economica che si trascina ormai da molto, troppo tempo, e che investe le tasche ed il vivere quotidiano d’una moltitudine di famiglie tra disoccupati cronici e lavoratori che d’improvviso si ritrovano senza impiego. Pure il Natale quest’anno è stato più povero, ed il Capodanno ora resta il rifugio per un’abbuffata propiziatoria, nella speranza che l’anno che verrà – per dirla con Lucio Dalla – «porterà una trasformazione»….
Ma certo è che Catania magari si piega, si è piegata investita da una moltitudine di avversità, ma non si rompe, né mai l’ha fatto o lo farà. «Noi – ricorda il suo sindaco, Salvo Pogliese – siamo un grande popolo: ci rimboccheremo le maniche, saremo solidali, e ricostruiremo. “Melior de cinere surgo” (“Rinasco dalle ceneri ancora più bella”, ndr)».
Gia, “Melior de cinere surgo”, le parole della celebre iscrizione che si trova a Catania sulla Porta Ferdinandea (il Fortino) e che – richiamando il mito dell’Araba Fenice, simbolo dei cicli di “morte e rinascita” naturali ed evolutivi, e riferendosi alle molteplici distruzioni che ha subìto la città (basti ricordare il terremoto del 1693…) – sintetizza la fierezza di una popolazione che, instancabile, continua a ricostruire sempre più bella la propria città sulle ceneri della precedente. Certo, non è facile: i problemi sono molti e la mole di lavoro per affrontarli è imponente, e poi la crisi ancor prima che locale è globale, e per quanto ci si possa dare da fare, numerosi fattori sfuggono dalla portata dell’impegno che ciascun catanese può mettere sulla bilancia e su quello complessivo d’una città che pure è operosa come poche, e che non a caso è pure stata – anche se da allora decenni sono passati – la “Milano del Sud”.
Ma appunto e ancora: “Melior de cinere surgo”. Le abbiamo scolpite nel nostro dna, noi catanesi, queste parole. E poi siamo “spacchiusi”, nel suo senso positivo, ovvero siamo in gamba. E possiamo, per esempio, sopportare che nel calcio il Palermo sia in B e lotti per la A e noi si resti in serie C?. O che – è qui la questione diventa più seria e importante – i nostri figli continuino a fare le valigie e ad andare via? E possiamo ancora a lungo accettare l’addio a quell’«ascensore sociale» che in passato portava di generazione in generazione a dei miglioramenti? Siamo catanesi, ricordiamocelo: la montagna di difficoltà che ci si parano innanzi è alta e grande più dell’Etna, ma possiamo scalarla. Dobbiamo scalarla.