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Il “coprifuoco” e i catanesi: “sopravviventi” tra nuove virtù e vecchi vizi
CATANIA – Ma ora che c’entra – nascosta, forse volutamente, fra scatolette di tonno, pacchi di pasta, bottiglie di pelati e detersivi di ogni forgia; sepolta da un cumulo di rotoli di carta igienica – una bottiglia di champagne da 38 euro? Il distinto signore indossa guanti di lattice, ma paga in contanti catafottendosene dello sguardo della cassiera, che maneggia le banconote come se fossero uranio impoverito. «Non sono uno che si fa condizionare dalle psicosi, ma…» (che sembra la premessa di chi assicura: «Non sono razzista, ma…»). Ma cosa? «Ho fatto provviste, cose che possono stare. Un po’ di sopravvivenza…». E, mentre la bella moglie infila, con fare furtivo, il pezzo pregiato della spesa nella busta, lui pare volersi giustificare: «Se dobbiamo soffrire, almeno qualche piacere non ce lo dobbiamo passare?».
Catania, primo dì del coprifuoco. Ché poi, gli effetti, s’erano già visti la notte prima. I supermercati aperti fino a tardi erano già stato preso d’assalto lunedì sera. Perché gli ansiosi (e gli idioti) pretendono sempre un posto in prima fila. E anche ieri c’è confusione, ma con gli ingressi contingentati. In molti, ma non tutti, i punti della grande distribuzione, prima frontiera di sbarco dei profughi da #iorestoacasa. Fuori file ordinate. «Io sono il carrello numero ventuno, mi passa un po’ di tempo. Ma ne vale la pena», confessa Mimma, pensionata che sfama nipotino e figlia «che già di travagghiu non ne mangia, figuriamoci ora con questa crisi che ci sarà». E dentro la smania di chi, mascherina sul grugno, sgomita per accaparrarsi verghianamente quanta più roba possibile. Il prescritto metro di distanza è un miraggio. Lontano anni luce di civiltà.
La città appare svuotata. O quasi. A Fera ‘o luni resta aperta, ma sembra lo scheletro di se stessa. Molti ambulanti rinunciano a piazzare le bancarelle, chi osa la traversata nel deserto fa pochi affari. E così l’ululato di marketing del cuore popolare catanese («A n’euro, tuttu a n’euro») si trasforma darwinianamente in un ancor più conveniente: «A macari meno di n’euro, col coronavirus tutto a cinquanta centesimi». Un po’ meno vuota la Pescheria, che, senza i selfie inebetiti dei turisti, diventa un posto come un altro dove i residenti del centro storico possono fare scorte a buon prezzo. Un anziano sta trattando su un quantitativo di masculini tale da sfamare l’intero equipaggio di Capitan Findus. E, confidando nella giornata di scarso business del pescivendolo, gli propone una specie di mutuo a tasso zero. «Io me li prendo tutti. Ma se gli altri trenta (euro, ndr) glieli porto a fine settimana?». La risposta è da manuale della catanesità ai tempi del colera: «Zio, cu tuttu ’u cori. Ma con questo virus oggi ci siamo e domani non si sa. E poi lei è vicchiareddu… Avanti, s’aiutassi: se ne prende la metà e un pugno glielo regalo io… ». Quasi tutti i ristoranti della zona hanno deciso di chiudere, fino al 3 aprile, anche a pranzo. Non l’antica trattoria “La Paglia”, che sulle vetrate espone un cartello d’incoraggiamento esistenziale: «Tutto andrà bene». Il titolare ne è convinto: «Resto aperto, la vita continua. Non so come, ma sopravviveremo a questa crisi che ci toglie il pane di bocca. Ce la faremo».
Stesso scenario di desolazione nel salotto buono dei catanesi. Corso Italia a mezzogiorno sembra una bottiglia piena di vuoto, con qualche particella di sodio che sembra stare lì per caso. I negozi sono aperti, ma con nessuno dentro. Anzi no: sbuca una coppietta di universitari col sacchetto di una catena di intimo. C’è un certo pudore, all’insolente domanda del cronista, nel confessare cosa c’è dentro: «Due costumi, un bikini e un boxer. È un modo per esorcizzare quello che sta succedendo. Guardiamo avanti, chiudiamo gli occhi e pensiamo all’estate. Quando tutto questo sarà finito. Forse». Segue precisazione: «Comunque siamo usciti perché dovevamo ritirare una radiografia qui vicino». Molto meno vereconda una cinquantenne con pantaloni di pelle e giubbino maculato. «E che vuole che le dica? Con questo smart working io e mio marito siamo tutt’e due a casa. Ho preso un paio di completini carini, giusto per non farlo stare sempre sul divano davanti alla tv». Il bivio è chiaro: «Dopo questo mese chiusi da soli, le cose sono due: o divorziamo o torniamo come quand’eravamo fidanzati…». Una terza via – tornare all’era pre-virus, allo stress come metadone di coppia – ci sarebbe ma forse è meglio che la tigre di corso Italia non lo sappia.
E i controlli? Nell’Italia «tutta zona protetta» decretata da Giuseppe Conte, da ieri si può uscire soltanto per motivi di lavoro, necessità (spesa compresa, anche di bikini e autoreggenti, visto che i negozi sono aperti) e salute. I catanesi sembrano rispettare le regole. Con qualche eccezione. Come il giovanotto che fa le flessioni accanto al campo di basket di piazza Nettuno. Che ci fa qui? «La facoltà è chiusa, la palestra pure. La mia ragazza è rimasta a Bologna. Che vuole che mi taglio le vene? E poi lo sport all’aria aperta non è vietato». Un tipo in giacca e cravatta è l’unico avventore ai tavoli di un rinomato bar del lungomare. «Lavoro da qui, ho un appuntamento e poi a casa proprio non ce la faccio…». In piazza Università una comitiva un po’ troppo rumorosa viene avvicinata con discrezione da un vigile urbano mascherinamunito. «Siamo colleghi, torniamo dalla pausa pranzo. Tutto a posto…». L’agente non spiccica parola, ma lo tradisce un’occhiata fra il perplesso e il severo. E una “lavoratrice” lo fredda: «Ma non è che ora è pure vietato essere allegri? Che fa, dobbiamo stare tutti a lutto?».
Alle sei della sera scatta la serrata dei locali pubblici. Qualcuno s’è già organizzato con le consegne a domicilio: non solo pizze, ma anche menu gourmet. Vico Santa Filomena, ombelico della movida etnea, sembra San Berillo ma senza buttane e con bei lampioni e facciate pulite.
E con uffici e negozi chiusi, diventano più stringenti i controlli delle forze dell’ordine su chi sta in giro senza validi motivi. Avvistiamo un’auto della polizia municipale in via Umberto; c’è addirittura un posto di blocco in piazza Roma. Patente, libretto e “giustificazione”. Qualcuno si fa trovare pronto con il prestampato. «Rientro presso il proprio domicilio», la ragione più gettonata. Che diventa sempre meno plausibile quando ormai è tarda sera. Rientro, ma da dove? Altri, sprezzanti del pericolo, non hanno con sé il foglietto. Fioccano i racconti di fantasia, ma di fatto è un balbettare in stile «è morta di nuovo mia nonna» come quando si era impreparati a scuola. Ingiustificabili. Molti cazziatoni, magari scatterà qualche denuncia. C’è chi riesce a imporsi di rispettare le regole e chi proprio non ci riesce, è più forte di lui. Nuove virtù e vecchi vizi, non c’è da sorprendersi. Ché poi ai nostri nonni ordinarono di andare al fronte, a noi impongono – cortesemente – di restare sul divano. In fondo non è così complicato essere “sopravviventi” al coronavirus.
È notte. Nelle strade della Catania chiusa in casa c’è un clima spettrale. Il buio prende il sopravvento sulle luci – le stesse di sempre – che appaiono infiochite. Inghiottite. E tristi.
Twitter: @MarioBarresi
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