Ignazio Cutrò: «Se ne devono andare i mafiosi e non certo io»

Di Redazione / 31 Marzo 2016

Si è presentato in piazza XIII Vittime con la bandiera dell’Italia legata al collo e un bidoncino di plastica con su scritto: “In culo alla mafia. I soldi per la benzina me li deve dare il ministero per darmi fuoco”.

Una provocazione quella di Ignazio Cutrò, l’imprenditore antiracket di Bivona, nell’Agrigentino, che con le sue denunce ha fatto arrestare e condannare i suoi estortori. Nei giorni scorsi aveva annunciato: “Giovedì mi darò fuoco a Palermo”. E oggi, insieme a tanti familiari delle vittime di mafia, si è presentato in piazza.

Nel 2011 è entrato nel programma di protezione per i testimoni di giustizia, ma a differenza di altri, lui ha deciso di restare nella sua città. Il motivo? “Sono i mafiosi che devono andare via – dice all’AdnKronos -. Io sono fiero di essere siciliano e difendo la mia terra, non scappo”.

Nel 2014, il 31 dicembre, la sua azienda, però, è fallita. Ha chiuso i battenti. Troppi debiti. “Tutti legati ai danneggiamenti subiti da Cosa nostra” spiega adesso il presidente dell’associazione nazionale dei testimoni di giustizia. Incendi e raid vandalici per convincerlo, prima, a pagare la messa a posto necessaria per non avere più problemi e, poi, per ritirare le denunce.

“Minacce inutili” dice adesso Cutrò, che, tuttavia, ammette: “Ho chiuso la mia azienda perché non ho più avuto commesse, sono stato abbandonato e gli aiuti promessi dallo Stato non sono mai arrivati”. Per gli imprenditori che denunciano il racket la legge prevede tre sospensioni delle istanze di pagamento e un mutuo agevolato. Ma nonostante due perizie del ministero dell’Interno datate 2011 e “ritrovate solo ora”, nelle quali “veniva certificato che la mia azienda era sana e che tutti i danni accumulati erano legati alla mafia – dice oggi Cutrò -, gli aiuti e il mutuo da 300mila euro a cui si faceva riferimento in quegli atti non sono mai arrivati. Ho provato con tutte le mie forze a far ripartire la mia azienda – racconta -, ma non ci sono riuscito. I primi a bussare alla mia porta sono stati gli stessi organi dello Stato”.

Ieri l’imprenditore antiracket di Bivona avrebbe dovuto pagare 540mila euro, “tutti debiti riconducibili ai danneggiamenti subiti”.
La chiusura della sua azienda? “Non è stata colpa della mafia, ma della burocrazia dello Stato che è peggio dei mafiosi” dice adesso Cutrò.

Oggi il presidente dell’associazione nazionale dei testimoni di giustizia è un dipendente regionale, lavora al Centro per l’impiego di Bivona, ma il suo sogno è tornare a fare l’imprenditore.

“Ringrazio la Regione per questa opportunità – dice -, ma sono pronto a lasciare subito questo posto, se lo Stato mi aiuta ad essere un imprenditore libero in un’Italia libera. Lo Stato mi restituisca la mia azienda e mi stia accanto. Dimostri che la lotta alla mafia è una cosa seria e non solo passerelle. Dimostri che c’è e difende chi ha subito vessazioni, non mandi alle vittime di mafia un messaggio devastante, facendo chiudere l’azienda di un testimone di giustizia”.

Eppure tornando indietro per Cutrò la strada sarebbe la stessa.
“Rifarei mille volte quello che ho fatto e agli imprenditori e ai cittadini dico di denunciare, di non piegarsi e di essere uomini e donne liberi” conclude.
 

 

 

“Noi oggi siamo qui per dire a Ignazio di non darsi fuoco, di non arrendersi. Ma anche per lanciare un appello allo Stato, perché sia presente”. A dirlo all’AdnKronos è Vincenzo Agostino, il papà di Nino, l’agente di polizia ucciso con la moglie Ida Castellucci il 5 agosto 1989, oggi in piazza a Palermo al fianco di Ignazio Cutrò, l’imprenditore antiracket di Bivona (Agrigento), giunto nel capoluogo siciliano per protestare contro “l’abbandono” dello Stato, colpevole di “aver fatto morire la mia azienda”.

In piazza XIII vittime non si sono le Istituzioni, ma solo la società civile. “È una delusione, ma ci siamo abituati – dice Cutrò -. Loro vanno solo a fare passerelle, non vengono qui dove ci sono persone oneste che hanno perso tutto”. “Dove è lo Stato – gli fa eco Agostino -? Dove è quello Stato che dovrebbe mettere in galera le persone che hanno fatto del male? Non credo in questo Stato, che ci ha lasciati soli”. La verità sulla morte di mio figlio? “Ho il dubbio che si voglia insabbiare la verità come è stato fatto per tanti anni, se accadrà significherà che non possiamo fidarci neppure delle Istituzioni che dovrebbero rappresentarci”.
 

“È assurdo che oggi qui non ci sia nessun rappresentante delle istituzioni – dice ancora papà Agostino -. Dove è Crocetta? Dove è il presidente della Regione che ci ha usati e poi buttati via? Oggi la vera mafia è quella dei colletti bianchi, gli stessi di cui parlava Falcone, quelli che dicono di fare antimafia, ma che poi sono più corrotti dei politici”. 

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Tag: antimafia ignazio cutrò protesta testimoni di giustizia