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I “nipotini terribili” di Santapaola fra affari con i farmaci ed elezioni

Di Mario Barresi |

MESSINA – «Se non era per noi altri i voti dove li prendeva nella funcia… (nel muso, ndr)… “le casette” tutti me li hanno dati i voti…». I Romeo, “nipotini terribili” del boss catanese Nitto Santapaola, erano talmente potenti a Messina da potersi permettere il lusso di gestire indisturbati anche attività extra-mafiose. E così, nel vanitoso racconto di Francesco Romeo, intercettato mentre parla con il figlio Vincenzo, c’è tutto il senso della scalata di una cosca “emigrata” che, partendo dal consenso dovuto alla nomea dell’illustre zio, ha messo le mani sulla Città dello Stretto. Fino a sostenere, fra gli altri, un aspirante consigliere comunale: Salvatore Lipari, in lizza nel 2013 con la lista dei Democratici e riformisti per la Sicilia (allora messa su dall’ex deputato regionale Beppe Picciolo) a sostegno del candidato sindaco “genovesiano” Felice Giuffrè. Emblematica, col senno di poi, la dicitura aggiunta nel manifesto elettorale ufficiale: Salvatore Lipari detto “Romeo”. Un nome, una garanzia.

Lipari è fra gli otto arrestati dell’operazione “Beta 2”, la seconda parte dell’inchiesta della Procura di Messina, guidata da Maurizio de Lucia, nella quale il Ros dei carabinieri ha (definitivamente?) smantellato la rete dei fiancheggiatori – sodali con arsenali a disposizione, ma anche insospettabili colletti bianchi – del clan Romeo-Santapaola. Ecco gli altri destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Salvatore Mastroeni: i messinesi Salvatore e Antonio Lipari, Giuseppe La Scala, Ivan Soraci e Maurizio Romeo; il catanese Giovanni Marano; Michele Spina, di Acireale; e Salvatore Parlato, di Francofonte. Decisive sono state le dichiarazioni di Biagio Grasso, ex socio di fatto dei Romeo, a sua volta oggetto di estorsioni.

Come emerso già nel prequel delle indagini, la cosca è riuscita a mescolarsi nei salotti bene della città e ad avere delle sponde illustri. Tanto da potersi concedere una seconda ripulitura ai soldi già investiti nel business dei centri scommesse. Un settore che, come dimostrano molte altre inchieste, è profondamente infiltrato dalla mafia. Non a caso Vincenzo Romeo, in un’intercettazione ambientale del 2014, ricostruisce: «… a Trapani lo ha per dire il nipote di Matteo (Matteo Messina Denaro, ndr), là ce l’hanno quelli la, i Graviano, quello là per dire Totò Riina …dove… (inc.)… il genero di coso … no vero, la figlia di Lo Piccolo aveva il tabacchino con la Better, no, no vero».

C’è un imprimatur manageriale anche in questo settore. Tant’è che fra le accuse c’è anche quella di traffico di influenze illecite, aggravato dal metodo mafioso: con la promessa di una tangente di 20mila euro «a titolo di acconto» a un funzionario di Invitalia «per ottenere l’inserimento di un progetto contro la ludopatia in una graduatoria che avrebbe dovuto consentire di ricevere un finanziamento di circa 800mila euro, di cui il 40%-50% a fondo perduto». Davvero grottesco: i boss, che fanno soldi con le macchinette, provano a corrompere un funzionario per prendersi pure i fondi di un progetto per curare i “malati” delle slot. Invitalia sostiene che nessun dipendente risulta indagato, ma «qualora emergessero profili di responsabilità personale», la società, oltre a tutelare la propria immagina, si dice pronta a «costituirsi parte lesa nell’eventuale procedimento giudiziario».

Ma il vero salto di qualità sta nel diventare, «sfruttando la capacità di intimidazione del sodalizio», i padroni della distribuzione dei farmaci fra Sicilia e Calabria. In una cena a Messina, nel 2014, Vincenzo Romeo veniva presentato ai partner commerciali in modo chiaro: «Un imprenditore in vari settori e parente diretto di Nitto Santapaola, con interessi economici a Messina, Catania ed in buona parte della Sicilia orientale». Gli affari, soprattutto nell’“hub” a Milazzo, vanno a gonfie vele. E, in un mix fra nuovi e vecchi affari, a un farmacista in difficoltà viene consigliato di «farsi prestare i soldi dalla malavita».Ma c’erano contatti importanti e frequenti con i palazzi. Del Comune di Messina, innanzitutto. Nei nuovi racconti di Grasso emergono le responsabilità dell’architetto Parlato, funzionario dell’Urbanistica arrestato, nell’ipotesi di turbativa d’asta «alterando nell’interesse del gruppo criminale» la gara indetta da Palazzo Zanca nel nel 2014 «per l’acquisto sul libero mercato di alloggi da assegnare in locazione agli abitanti delle 95 baracche di “Fondo Fucile”».

E poi anche i palazzi romani. Fra gli indagati per traffico di influenze illecite, infatti, c’è Sergio Chillè, «perfettamente consapevole di chi fossero i Romeo, (…) Spina presentò Vincenzo Romeo come nipote di Nitto Santapaola, nonché rappresentante della famiglia Santapaola su Messina». Chillè – racconta Grasso – viene presentato al gruppo come «dipendente della Camera dei Deputati». Vicino alla vecchia An e al senatore Domenico Nania, era entrato in rapporti diretti con Ignazio La Russa al seguito del quale resta a Montecitorio, ripercorre il gip. Proprio subito dopo il nome di La Russa, nell’ordinanza, gli inquirenti piazzano un gigantesco “omissis”, facendo intendere che le rivelazioni di Grasso sono oggetto di altri approfondimenti. Il “pentito”, inoltre rivela che Chillè avrebbe chiesto loro supporto elettorale, senza però ottenerlo. Nelle ricostruzioni, suggestive in attesa di riscontri penali, anche i contatti che il “facilitatore” mette a disposizione: con «un sedicente appartenente ai servizi segreti» , poi con un «onorevole toscano dell’entourage di An». Infine, con un altro mediatore per proporgli un affare, sempre previa tangente: la partecipazione a un bando di gara per la costruzione di un palazzo di giustizia a Tirana, in Albania.

E poi la massoneria. Che nelle vicende messinesi non manca mai. Col riferimento, decriptato nelle carte, a un tale «Compasso». Molto rispettato da Vincenzo Romeo: «A “Compasso” gli dobbiamo dare pure qualche cosa…». Certo, anche a lui. Come a tanti altri.

Twitter: @MarioBarresi

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