Franco Barberi, l’uomo che ha “domato” la lava

Di Francesco Vasta / 04 Agosto 2018

Alla soglia degli ottant’anni, Franco Barberi ritorna sull’Etna. Ma stavolta non c’è nessuna colata di lava da far saltare in aria. L’ex capo della Protezione civile riceve, domenica a Linguaglossa, il “Premio Etna” assegnato alle personalità che più spiccano nel rapporto con il vulcano. Un modo per riscoprire, allora, quello che lui stesso definisce «uno dei capitoli più importanti della mia vita di studioso». Durante l’eruzione del 1983, quando per la prima volta il vulcanologo di Pietrasanta lanciò l’idea di deviare la lava con l’esplosivo, la politica, le copertine erano ancora lontane. Anche le disavventure giudiziarie, come la condanna per omicidio colposo – poi, in appello, l’assoluzione – per il terremoto dell’Aquila, in quanto componente della Commissione Grandi rischi.

La fama più che nazionale arriva quando il tentativo di opporsi al vulcano, nel 1992, va a segno. «Esperienze che rimangono uniche al mondo», ricorda l’ex ministro del governo Dini. A Zafferana il fiume di fuoco stava per raggiungere le abitazioni, eppure l’uomo riuscì ad ingannare la montagna, di fatto riportando indietro, in Valle del Bove, le lancette dell’eruzione. Con il tritolo erano stati azzerati i canali di alimentazione della colata. A muovere quel circo, tra le prime calamità mediatiche nazionali, c’era la cieca fiducia nella forza della ragione di questo professore toscano, disaster manager ante litteram.

Professore, quanto le piace la definizione di “domatore di lava” che si rinviene nelle ricostruzioni giornalistiche del tempo?

«Non mi piace per nulla. Non considero l’Etna una belva, ma un fenomeno naturale. Ho sempre avuto rispetto e una sorta di innamoramento per la bellezza, la forza, il colore di una colata, tutte cose capaci di farti restare incantato per ore. Rimanendo settimane a contatto con la lava dell’Etna, interrogandosi sul sistema migliore per fermarla, si sviluppano anche quasi dei dialoghi».

Oggi farebbe lo stesso?

«Sì, senza dubbio. Andando direttamente all’intervento finale avendo acquisito l’esperienza necessaria. La farei perché la lava aveva già distrutto le prime case, sarebbe sicuramente arrivata al paese. La colata andava fermata e si dimostrò, in quella circostanza, che avevamo la capacità di fermarla».

Salvare le costruzioni, i paesi, per lei è un imperativo. Oppure talvolta va bene che la natura faccia il suo corso?

«Un grande professore palermitano, Marcello Carapezza (vulcanologo, scomparso nel 1987, ndr), ha dato la migliore risposta alle polemiche del tempo. Coniò addirittura un nuovo termine, anandroecologia, cioè l’ecologia senza l’uomo. C’è chi sostiene che, sebbene sia possibile, bisogna non salvare ciò che è costruito dall’uomo per un rispetto assurdo, antiumano, della natura. Credo che un’affermazione più retriva non possa essere fatta. Non ci si deve difendere, allora, dalle frane, dai terremoti, perché sono tutti fenomeni naturali? Sono tutte idee prive di cultura, prive di rispetto per il progresso umano».

Rispetto a quel tempo, il potenziale rischio Etna è diminuito?

«Forse è un po’ aumentato, perché i paesi a rischio nei decenni si sono sviluppati, si sono realizzate molte più case. Certamente non è diminuito, le eruzioni dell’Etna possono riprodurre le colate negli stessi luoghi del passato».

Nel caso dei terremoti ci viene spiegato che l’unica prevenzione possibile è costruire edifici antisismici. Ai piedi dell’Etna, c’è una grande città come Catania fatta per circa l’80 per cento di palazzi e case non antisismiche. Come mai si è rimasti così indietro?

«Perché la normativa antisismica è stata adottata con grandissimo ritardo. In Italia fino al 1980 la classificazione sismica si faceva soltanto aggiungendo all’elenco delle zone sismiche via via quelle colpite da nuovi terremoti. La prima mappatura risale al terremoto di Messina, dunque solo i luoghi colpiti nell’arco del Novecento era considerati sismici. Ricordare il caso Catania è giusto: i grossi terremoti di quella città risalgono al Seicento e dunque Catania non era considerata a rischio sismico. Per demenza, direi, di chi ha governato il nostro Paese: era infatti una precisa scelta politica. Ci volle il Progetto Geodinamica del Cnr che io diressi per imporre, dal 1984, la classificazione sismica di tutta Italia solo sulla base della pericolosità. Le case costruite prima sono sismicamente insicure e ciò significa che i prossimi terremoti, anche a Catania, potrebbero essere una tragedia».

Ancora oggi la sensazione è che chi ha responsabilità di governo abbia difficoltà a imporre il tema della prevenzione. Difficile qualcuno possa dire: Catania è un’emergenza nazionale, vanno buttati giù e ricostruiti i palazzi. Perché?

«Quando sono stato sottosegretario (dal 1996 al 2000, ndr), malgrado gli scarsi fondi, ho provato a fare qualcosa soprattutto richiamando l’attenzione sul tema. Per esempio con gli studi sulla vulnerabilità sismica degli edifici pubblici: in tutte le regioni del Sud è emerso quello che si temeva, cioè un rischio altissimo. Temo che i politici si aspettino un ritorno d’immagine immediato, e la prevenzione questo non può darlo. E poi, se lei hai cento case da risanare e ne risana ottanta, quando cadranno le venti restanti sarà stati comunque un disastro: nessuno si renderà conto che ne sarebbero crollate cento».

Dopo una catastrofe scatta, quasi come una catarsi collettiva, la ricerca del colpevole di cui lei, più volte, è finito nel mirino. Forse è questo il primo sintomo delle carenze nella cultura della prevenzione italiana?

«Credo ci sia la necessità di trovare un capro espiatorio, il caso dell’Aquila è emblematico. La condanna della Commissione Grandi rischi è stata deleteria: oggi nessuno scienziato si prende la responsabilità di esprimere un giudizio, qualunque esso sia, per il timore di conseguenze giudiziarie. Così il timore di cadere in un’altra trappola tipo l’Aquila fa sì che di fatto la Commissione possa essere eliminata. Deleteria è stata anche la negazione del principio della prevenzione di un rischio e la ricerca di un colpevole, di chi non aveva detto “allontanatevi da casa”. Ma i terremoti non si possono prevedere. Dunque, da stanotte, nessuno dovrebbe dormire in tutte le case sismicamente insicure d’Italia perché nessuno può escludere che la scossa arrivi. Quella sentenza è stata, culturalmente, una tragedia e temo che se ne sconteranno ancora le conseguenze».

A giugno a Catania si è insediato il nuovo sindaco, Salvo Pogliese. Tra le sue priorità c’è un nuovo Piano regolatore. Quello attualmente in vigore è del 1969. Cosa si sente di suggerire a chi lavorerà sul nuovo strumento?

«Mi compiaccio che un nuovo Prg sia tra le prime preoccupazioni dell’amministrazione, era ora. Il consiglio è che si considerino i rischi naturali della città, primo fra tutti certamente quello sismico. Il Prg dovrà essere molto severo in due cose: rigore estremo nel pretendere che le nuove costruzioni rispettino la normativa antisismica. Secondo, e questa è la parte più difficile, promuovere la mitigazione del rischio sulle costruzioni esistenti. Sono convinto che serva un’azione culturale. Nella vita di una famiglia, ad esempio, viene un momento in cui si decide di migliorare l’edificio nel quale si vive. Se invece di dedicarsi alle rifiniture, si investissero i risparmi nel consolidamento strutturale, forse si salverebbero molte vite. Serve che tutti i catanesi sappiano che, mettendo un po’ di soldi nelle proprie case, aumentano le probabilità di sopravvivere a un terremoto».

Chi è

A capo del Dipartimento della Protezione Civile nel quadriennio 1997/2001, dopo averla coordinata e seguita da ministro e da sottosegretario, Franco Barberi, 80 anni, è un geologo, docente di Vulcanologia. Ha coordinato (1999) il Censimento di vulnerabilità degli edifici pubblici, strategici e speciali in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia e Sicilia, le regioni considerate a più alto rischio sismico. Ha fondato e diretto il Gruppo Nazionale per la Vulcanologia del Cnr.

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Pubblicato da:
Redazione
Tag: etna franco barberi