PIAZZA ARMERINA – «Vorrei che per prima cosa si ricordassero i colleghi che non ci sono più, Fausto Piano e Salvatore Failla, perché immagino le famiglie cosa stanno provando adesso. Perciò il ricordo deve andare a loro. Noi abbiamo avuto la fortuna di tornare, loro no». Lo ha detto Filippo Calcagno, il tecnico siciliano per otto mesi in mano ai rapitori in Libia che ha incontrato i giornalisti per qualche minuto davanti alla sua casa a Piazza Armerina all’indomani del rientro in Italia dopo la liberazione. «Erano con noi fino al 1 marzo. Da quel giorno in poi eravamo da soli e loro non so dove li avevano portati. Abbiamo sofferto la fame, ci hanno dato pugni, colpi di fucile, percosse».
Calcagno ha raccontato anche come ha fatto a liberarsi da solo insieme con il collega Gino Pollicardo. «Ho lavorato molto su quella porta. Ho capito che con un chiodo si possono fare tante cose. Ho lavorato sulla serratura, o meglio sulla parte dove la serratura si va ad incastrare nella porta. Era un legno duro però pian pianino, con la caparbietà, ho indebolito la parte. Poi ho chiamato Gino, perché mi facevano male le dita da giorni e gli ho detto: “dai Gino vieni, se dai due colpi siamo fuori».
«Il giorno prima avevamo provato e gli avevo detto “Gino, mi dispiace, noi riusciamo a farlo”…invece poi. – ha continuato – Quando si è aperta la porta l’altro dubbio era di trovare chiusa dall’esterno la porta che dava fuori, invece era aperta e fuori non c’era più nessuno. Ci siamo camuffati perché avevamo paura che ci fosse qualche altro gruppo fuori ci prendesse. Siamo andati sulla strada con l’intenzione di chiedere aiuto, però cercavamo la polizia perché era l’unica che potesse darci aiuto. E fortunatamente il buon Dio ci ha messo sulla strada giusta. Abbiamo trovato i poliziotti e poi da lì è stato tutto un crescendo. Io dopo circa un’ora sono tornato indietro con loro per riconoscere la casa».
Parlando dei suoi rapitori e carcerieri, Calcagno ha detto di non sapere se «si trattava di uomini dell’Isis. Saranno loro a dire se sono dell’Isis o delinquenti. Per me sono dei criminali perchè quello che fanno è atroce». Calcagno ha detto che fra i suoi carcerieri «c’erano anche delle donne ed un bambino. Una famiglia di delinquenti, di criminali».
Calcagno ha raccontanto anche i momenti di sconforto: «Un momento difficile è stato l’inizio perché, intanto non ci credevamo. Pensavamo di vivere un incubo. Non ti rendi conto di quello che sta succedendo. Poi pian pianino abbiamo cercato di tenerci tutti con la mente chiara, ricordando i giorni, cercando di non sbagliare data. E ci siamo riusciti, tranne che per il 29 febbraio: non ricordavamo l’anno bisestile». «Abbiamo parlato di tutte le nostre cose, di tutto – ha aggiunto – di cosa fare quando saremmo tornati perché ci credevamo nel nostro ritorno, specialmente negli ultimi tempi Salvatore Failla aveva una fiducia … Diceva “dai, tranquilli. Ce la facciamo”».
Calcagno ha ricordato che fra di loro i quattro tecnici italiani rapiti dicevano che se avessero avuto «la fortuna di uscirne vivi, ci sarebbe passare la voglia di girare il mondo. Anche a Salvatore, che ho conosciuto bene in questi otto mesi. Prima non ci conoscevamo, eravamo stati insieme solamente due mesi in un altro cantiere nel deserto. Con Gino siamo entrati quasi insieme nella società, con Fausto ci conoscevamo». Lo ha detto Filippo Calcagno ad un giornalista che gli ha chiesto se gli fosse passata la voglia di girare il mondo.