Mafia
Fermi Bagheria, quando il boss impose lo stop ai dolci per “concorrenza sleale”
Tra i retroscena che emergono dall'operazione Persefone c'è anche la risoluzione di questioni tra i privati, uno dei quali vicino al clan
Il controllo del territorio era capillare. E per imporre la propria 'autorità' i boss ricorrevano non solo alle estorsioni, con la "messa" a posto delle imprese impegnate nei cantieri locali, ma anche alla risoluzione delle controversie tra privati. Così poteva accadere che un panificio, accusato di "concorrenza sleale" a un’attività gestita da un soggetto vicino al clan, fosse costretto a modificare la propria produzione. E’ quanto emerge dall’ultimo blitz antimafia eseguito dai carabinieri del Comando provinciale di Palermo e che ha decapitato la famiglia di Bagheria.
Otto i fermi emessi su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, a carico di altrettanti indagati, accusati a vario titolo di associazione per delinquere di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, detenzione e vendita di armi clandestine, estorsione, lesioni personali aggravate, reati tutti aggravati dal metodo e dalle modalità mafiose. L’attività tecnica, infatti, ha permesso di accertare una condotta estorsiva posta in essere da Onofrio Catalano, ritenuto esponente di vertice del clan, nei confronti dei titolari di un panificio, rei di produrre dolci che, considerata la vicinanza a un bar gestito da una persona vicina alla famiglia bagherese di Cosa Nostra, danneggiavano economicamente il titolare. "Le vittime sono state effettivamente costrette a smettere di produrre i dolci oggetto della contestazione mafiosa di 'concorrenza slealè", spiegano gli investigatori.
Tra i retroscena del blitz emerge anche che a operare potevano essere solo soggetti "autorizzati" da Cosa nostra, tenuti a versare periodicamente una quota fissa dei proventi nelle casse della famiglia mafiosa. Spaccio di droga e centri scommesse erano il core business del clan e a testimoniarlo c'è un’intercettazione del capomafia Massimiliano Ficano. Non sapendo di essere intercettato e parlando con un suo stretto collaboratore il boss spiegava l'importanza del traffico di sostanze stupefacenti e della gestione dei centri scommesse, le attività più remunerative per la famiglia. "Attività che venivano controllate direttamente da capomafia – spiegano gli investigatori dell’Arma – anche se non si esponeva mai in prima persona, delegando i suoi più fidati collaboratori". I proventi servivano a provvedere al sostentamento dei familiari dei detenuti, dovere 'sacrò dei boss liberi "in quanto, in caso di mancato adempimento di tale delicata incombenza, vacillerebbe il vincolo di omertà interna e, di conseguenza, la graniticità di Cosa Nostra", dicono gli investigatori. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA