«Il modo migliore in cui le istituzioni possono ricordare Falcone e i nostri morti è di creare le condizioni perché i magistrati proseguano in modo efficace la ricerca della verità anche sulle entità esterne alla mafia che verosimilmente parteciparono all’ideazione, organizzazione ed esecuzione dell’attentato. La sua eredità è già stata tradita? A mio avviso, sì…». Lo afferma il magistrato Nino Di Matteo un’intervista a Oggi, in edicola domani, ricordando Giovanni Falcone a trent'anni dalla strage di Capaci. «Dal punto di vista politico istituzionale – aggiunge -, temo che da parte di molti si voglia considerare il tempo delle stragi un capitolo chiuso».
Nell’intervista ad Andrea Purgatori, Di Matteo dice che la strage non fu solo di vendetta, ma con altri due moventi «uno preventivo e l’altro di finalità terroristica». E che ci siano state, in quella di Capaci e in successive stragi, mani esterne alla mafia: «È ciò che è emerso nei processi», sottolinea. Di Matteo risponde anche su Giuseppe e Filippo Graviano, ora in carcere, e l’eterno latitante Matteo Messina Denaro: «Queste tre figure non rappresentano il passato ma il presente di Cosa Nostra. I Graviano, all’epoca giovani stragisti, non si sono rassegnati a finire i loro giorni in carcere. Forse in questi anni hanno nutrito la speranza che fosse abolito l’ergastolo ostativo e ora cercano di capire se può essere un momento propizio in cui continuare nella fase del basso profilo di Cosa Nostra oppure no. E io temo che possano alzare nuovamente il tiro contro lo Stato». E su Messina Denaro aggiunge: «È in possesso di un’arma micidiale: la conoscenza dei rapporti che Cosa Nostra ha avuto nel periodo delle stragi. Quest’arma vale più di quintali di tritolo perché è l’arma del ricatto. Uno Stato che alcune volte si autocelebra nel dire che la mafia è stata sconfitta, dovrebbe avere pudore ad affermarlo con nettezza quando uno dei suoi principali protagonisti è ancora libero. E libero di ricattare».