ROMA – «Domenica sera, quando ho sentito fare il mio nome inserendolo in una presunta trattativa ho sentito l’irrefrenabile bisogno di raccontare i fatti, al di là delle strumentalizzazioni». Il consigliere del Csm Antonino Di Matteo, intervistato da Repubblica – spiega perché ha deciso di raccontare solo adesso quanto accadde nel giugno del 2018 sulla mancata nomina al Dap, circostanza che ha travolto di polemiche il ministro della giustizia, il siciliano Alfonso Bonafede (M5s) .«”Dopo le dimissioni di Basentini – ha detto Di Matteo – proprio come due anni fa, alcuni giornali hanno di nuovo scritto che mi avrebbero fatto capo del Dap. Quando Roberto Tartaglia è diventato vicedirettore del Dap eccoli scrivere “arriva il piccolo Di Matteo”». Poi quando nella trasmissione di Giletti ha sentito fare il suo nome, ha alzato il telefono e ha chiamato il conduttore per ripercorrere quei giorni.
Di Matteo ricevette in pochi giorni due offerte da Bonafede. Prima il il ruolo di capo del Dipartimento dell’amminisrazione giudiziaria, e poi quello di capo del Dag (Dipratimento affari di giustizia, ex Affari penali). «Prima una proposta, poi un’altra» dal ministro Bonafede. «Da allora mi sono sempre chiesto cosa era accaduto nel frattempo. Se, e da dove, fosse giunta una indicazione negativa, magari uno stop degli alleati o da altri, questo io non posso saperlo».
L’ex pm della trattativa tra Stato e mafia spiega poi cosa accadde in quelle 48 ore, dopo averne parlato nella trasmissione “Non è l’Arena” su La7. «Era lunedì 18 giugno – racconta – Ero a Palermo, a casa, il giorno dopo sarei tornato a Roma, nel mio ufficio alla Procura nazionale antimafia. Squillò il telefono, era Bonafede. Mi pose l’alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Chiuse il telefono dicendo “scelga lei”». All’indomani, Di Matteo si reca al Ministero per incontrare Bonafede. «Gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui, però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini».
«Non chiesi al ministro Bonafede perché aveva cambiato idea – ha detto Di Matteo – ma rimasi sorpreso». «Devo presumere che quella notte qualcosa mutò all’improvviso – racconta – Bonafede insistette sugli Affari penali, parlò di moral suasion con la collega Donati (che in quel momento era a capo degli Affari penali ndr) perché accettasse un trasferimento. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione».
Come è noto, il magistrato disse di no. «Tornai da lui e gli dissi che a queste condizioni non ero più disponibile. Cose come queste sono indimenticabili», «come il nostro ultimo scambio di battute – ricorda -. Io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali “non c’è nessun dissenso o mancato gradimento che tenga”. Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente, mi ha fatto pensare».
Anche perché Di Matteo rammenta che «il ministro Bonafede si mostrò informato» sulle esternazioni dei boss mafiosi rinchiusi al 41 bis che non volevano il consigliere del Csm Antonino Di Matteo a capo del Dap. «Dopo le elezioni (del 2018 ndr) alcuni giornali scrissero che c’era l’ipotesi Di Matteo al Dap. Dell’esistenza del rapporto lo appresi il giorno prima lo stesso giorno della visita». «Mi chiamarono da Roma dei colleghi – ricorda ancora Di Matteo – per dirmi che c’era una cosa molto brutta che mi riguardava. In più penitenziari» dei boss avevano gridato il loro no a Di Matteo al Dap.
«Pensai allora e ho sempre pensato di essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale – dice ancora il magistrato -. Io vivo una vita blindata da 15 anni, mi muovo con 15 uomini intorno che controllano ogni mio movimento. Sulla mia testa pende una condanna a morte mai revocata di Riina. Collaboratori attendibili continuano a dire che per me l’esplosivo era già pronto. Faccio il magistrato e con tutto quello che ho fatto nel mio lavoro sapevo e so che non devo chiedere niente».