RAGUSA. Se magari non si chiamasse Veronica, ma «Vittoria» Panarello (come nel refuso finale dei periti), si potrebbe giustificare il suo «c’ero e non c’ero» al momento del delitto e la successiva rimozione «come se non fosse successo nulla». Ma la monumentale perizia psichiatrica sulla donna accusata di aver strangolato e ucciso suo figlio non è una parolina che si può cancellare dentro un rettangolo di penna rossa. Il lavoro di Eugenio Aguglia e Roberto Catanesi, oltre a essere di alto spessore scientifico, è anche un instant book sul caso giudiziario più controverso degli ultimi anni, con un’efficace sintesi di migliaia di atti processuali.
Perché fra le righe delle 105 pagine (allegati esclusi) non c’è soltanto l’atteso, seppur scontato, verdetto su cosa c’è dentro la testa di Veronica. Si va oltre, si penetra dentro l’anima. La sua personalità ha «tratti istrionici, alimentati da un nucleo narcisistico che orienta una lettura soggettiva di fatti e giudizi sulle persone in maniera fortemente egocentrica, autocentrata», scrivono i periti del gup di Ragusa. E magari si riferiscono anche alla chiusura del primo colloquio con gli “strizzacervelli” nel carcere di piazza Lanza a Catania, lo scorso 11 gennaio.
«La mia vita – racconta Veronica – è come una piramide. Al primo piano, in basso, ci sono i figli. Al secondo il marito, al terzo i suoceri e al quarto la casa. E io sono laggiù, ai piedi, a reggere il peso di tutto quanto». Si autodefinisce «una persona che si fa forza da sola», perché «io sono stata da sempre abituata a non appoggiarmi: mi aiuto da sola, non aspetto gli altri».
O magari il riferimento istrionico-narcisista è al «siparietto del tutto fuori luogo» con i due consulenti di parte, Ciappi e Sartori: «Avete le stesse scarpe», dice loro. Del resto, si legge nella perizia, «l’atteggiamento della perizianda risulta seduttivo e volto a ridurre le distanze relazionale». Infatti dice a tutti: «Datemi del tu, chiamatemi Veronica».
Molto indicativi sono i numerosi questionari somministrati in carcere dagli esperti. «Prima o poi questi test mi faranno diventare pazza!», dice a una dottoressa. In una risposta segna “vero” sotto la frase «L’anno scorso sono comparso sulle prima pagina di diverse riviste».
Il commento di Veronica: «Purtroppo è vero… ma che fa, l’hanno messa proprio per me questa domanda?». Poi si passa alle prove grafiche. «Stavolta la supero, dottoressa», è la sfida all’interlocutrice. Nel cosiddetto “test della figura umana di Machover”, Veronica sceglie di disegnare «una donna in un giorno importante, quello del suo matrimonio, a 25 anni».
Chi è quella? «Sono io», risponde. Le orecchie, la bocca, il naso, gli occhi («grandi e accentuati») e i capelli. Quindi il corpo, col le braccia strette «sintomo di passività o difesa» e un lungo abito che copre i piedi, molto curato come a rivelare «narcisismo o esibizionismo».
Il medico le propone di disegnare una figura maschile: e lei si esibisce in «un uomo di 25 anni nel giorno del suo matrimonio». Ancor più emblematico è il “test della famiglia”. Veronica deve disegnare un bambino. «Faccio Loris». Comincia abbozzando la figura, poi si ferma. «Non mi piace… non è venuto bene, lo rifaccio».
Prende un altro foglio, ma stavolta il soggetto è un uomo che prende per mano un bambino; segue «una donna longinea». E lei, con gli occhi, sembra quasi ripetere la stessa frase che disse in un interrogatorio al pm: «Avrei voluto fare una famiglia molto più bella, ma… va bene così».
Decide di dare una data al disegno: dicembre 2011, «perché per me è il periodo della mia vita più bello e sereno». Per i periti «una tendenza a rifugiarsi nel passato, da lei percepito come più rassicurante».
Lei e Davide, uniti come il tatuaggio sull’avambraccio di Veronica (uno scorpione, segno zodiacale di entrambi), con all’interno un sole con le iniziali “D” e “V”. «Volevo farne un altro con i nomi dei miei due figli», rivela ai periti. Ai quali racconta la sua infanzia difficile, la scoperta che quello che considerava suo padre non lo era dal punto di vista biologico, il tradimento della madre e i rapporti burrascosi con la sorella, «gelosa e invidiosa di me come nella favola del cigno e del brutto anatroccolo».
Infine l’incontro con Davide, il fidanzamento osteggiato dalle famiglie e la soluzione: «Fare Loris… per stare insieme», risolvendo il problema con una gravidanza e aprendo le porte all’infelicità successiva. Ma i colloqui in carcere sono anche l’occasione per scandire le accuse al suocero Andrea Stival, indagato come atto dovuto per concorso in omicidio dopo le dichiarazioni-shock della donna. Il nonno di Loris ha sempre negato con forza ogni addebito. Il racconto dettagliato della loro presunta relazione e le minacce di Loris che «voleva raccontare tutto a papà».
L’uomo, ricorda Veronica, chiamava il nipote «addummisciutu a’ ditta» (addormentato in piedi). Loris era «più nervosetto quando c’era il nonno», sostiene, condendo il quadro con sospetti «su cose che una madre capisce». E poi la sua ultima verità: quel 29 novembre 2014, in casa, col suocero che avvolge il filo del computer attorno al collo del bambino e lo uccide mentre lei era terrorizzata e immobile per il panico.
«Mi sentivo pietrificata», ripete fino alla nausea l’imputata. «Un finale assurdo», lo definisce. Ammettendo, per la prima volta, che «forse sarebbe stato meglio raccontare tutto a mio marito della relazione con Andrea e affrontare la separazione».
Una circostanza, quella del suocero presente sul luogo del delitto, mai però riscontrata nemmeno minimamente dalle indagini in corso. Ma il one woman show di Veronica Panarello è in ogni pagina della perizia. Nei discorsi sulle misure dei peni di famiglia, nelle divagazioni «su particolari anche poco significativi, che tendono a riempire un vuoto di sostnaza», scrivono i periti. Nelle epistole dal carcere: in una, ad esempio, ringrazia il giornalista Carmelo Abbate «per il pacco che mi ha inviato» e gli rivela di aver spedito una lettera a Mattarella, «chiedendo il suo intervento con la speranza che non divenga carta straccia per riempire la spazzatura».
Veronica si esibisce negli esordi dei colloqui, con saluti che vanno dai promettenti «la notte mi ha portato tanto consiglio» e «oggi sono scesa con la mente tranquilla» al sofferto «ho mangiato solo patatine e dieci gocce di Valium». Parla, parla, parla. Alternando dialetto e forbito italiano, volgarità e raffinatezze discorsive. Una, nessuna e centomila Veroniche. «Il mio incubo è finito, è terminato… mio figlio avrà la pace e la giustizia che merita». Anche se lei teme che chi ha ucciso Loris «la farà franca e chi non lo ha fatto pagherà».
E l’invito al suocero a confessare: «Mi sono spogliata della mia dignità di donna e ho detto la verità… lo faccia anche lui…». I giudici non le credono, i periti la ritengono capace di intendere e di volere. E lei resta lì, sospesa fra menzogne vere e verità suggestive. Come in quell’episodio, ricostruito nel “Diario clinico della casa circondariale di Agrigento”.
È il 12 febbraio 2015. Veronica sta male: non mangia, dice di aver vomitato. Rifiuta le flebo dei medici. Qualche ora, nel colloquio col medico incaricato, fuma una sigaretta con senso di piacere. «Che c’è di male? Questa non è che mi fa venire la nausea…».
Twitter: @MarioBarresi