PALERMO – Nello stomaco, dal punto di vista giudiziario, non c’è più il pugno dei «morti da spalmare». E cadono molti dei capi d’incolpazione a carico dei vertici della sanità siciliana: da 36 passano a 7, comunque un compendio di 34 casi contestati. Eppure resta in piedi, ridotta e più circostanziata, l’ipotesi d’accusa principale: la Regione, dall’8 novembre 2020 allo scorso 19 marzo, avrebbe falsificato alcuni dati (soggetti positivi, tamponi, ricoverati e posti letto) sull’emergenza Covid in Sicilia. E resta immutato l’effetto finale: quei numeri avrebbero condizionato le scelte a livello nazionale e regionale.
L’indagine su presunti falsi nei dati Covid si ridimensiona in un «ridisegnato confine, certamente più favorevole per tutti gli indagati». Ma non si sgonfia. Ieri il gip di Palermo, su richiesta dei pm (a cui è passata l’inchiesta partita da Trapani), ha ordinato la sospensione di un anno dai pubblici uffici per Maria Letizia Di Liberti (ex dirigente del dipartimento Attività sanitarie e Osservatorio epidemiologo) e del nipote Salvatore Cusimano (funzionario regionale). Nel “gioco dell’oca” giudiziario, la misura interdittiva è un alleggerimento degli arresti domiciliari disposti dal gip di Trapani: Di Liberti e Cusimano tornano in libertà, assieme a Emilio Madonia, dipendente della Pwc, società di gestione informatica dei dati.
Resta fra i sei indagati Ruggero Razza. All’ex assessore regionale alla Salute vengono contestate due ipotesi di falso: la prima, con Di Liberti e Mario Palermo (dipendente dell’assessorato referente dei dati per la Regione) sui posti letto nella terapia intensiva a Termini Imerese (due anziché quattro, in una comunicazione del 20 novembre 2020) e sull’indicazione di ricoveri ordinari inferiori al numero reale (il 27 dicembre scorso); la seconda, sempre con l’ex dirigente, per dati falsi sui ricoveri (45 invece dei reali 57, il 3 gennaio scorso), per aver inserito nella piattaforma, sui dati dei positivi nel Palermitano, il 15 e 16 marzo ( +295 invece che +355 e +225 al posto dei reali 245) «comunque al fine di non superare la soglia dei +600 nella regione». Nell’informativa dei Nas di Palermo del 5 marzo scorso si parla di «rilevanti elementi di presunta reità» emersi a carico di Razza, che però nelle (asciuttissime) 225 pagine della nuova ordinanza del gip Cristina Lo Bue viene citato soltanto nelle ipotesi di reato e in alcune intercettazioni.
Il terreno di gioco dell’inchiesta, dunque, si restringe. Il procuratore aggiunto Sergio Demontis e il sostituto Andrea Fusco “tagliano”, rispetto alla richiesta dei colleghi di Trapani, tutti i capi d’incolpazione sui bollettini giornalieri (che per il procuratore Maurizio Agnello avrebbero «radicato la competenza territoriale» a Roma), ma anche, con tutto il carico di suggestioni, i dati sulle comunicazioni dei decessi. «Sebbene rilevanti ai fini disciplinari, appaiono del tutto ininfluenti ai fini della configurazione del delitto di falso», chiosa il gip spiegando poi che queste statistiche non incidono sulle scelte tecniche e politiche.
Ma, su ciò che resta delle ipotesi accusatorie partorite a Trapani, viene confermato un nesso ben preciso. I cosiddetti «dati aggregati», inseriti nei form della piattaforma web di sorveglianza integrata della Regione, restano delle gravi falsificazioni. Non «innocue alterazioni di dati, effettuate al fine di rendere reali i dati comunicati», ma «falsificazioni penalmente rilevanti, in quanto finivano per incidere sulla genuinità e attendibilità del dato». Con un «indubbio rilievo pubblicistico», in quanto «incidenti non solo sull’elaborazione del dato statistico relativo all’andamento della pandemia in Sicilia, confluito nel bollettino giornaliero». Per il gip le falsificazioni inciderebbero sulla «adozione dei provvedimenti di tipo emergenziale a livello centrale». E cioè sulle scelte della Cabina di regia di ministero della Salute e Istituto superiore di Sanità, in particolare alterando i parametri 2.1 (percentuale dei tamponi positivi sul totale di quelli effettuati), 3.1 (l’aumento dei contagi nelle ultime settimane), 3.8 (i posti letto in terapia intensiva) e 3.9 (i posti letto di degenza Covid). Ma per il magistrato c’è un rilievo anche «a livello regionale»: le ordinanze del governatore Nello Musumeci, «emanate sulla base dei dati aggregati che il Dasoe inviava all’assessore per le determinazioni della Presidenza».
Significativa, nella ricostruzione della filiera delle responsabilità, anche la testimonianza di Salvatore Scondotto, non indagato, responsabile della validazione dei dati regionali, compresi quelli “individuali” (le schede dei singoli pazienti, non oggetto dell’inchiesta, trasmessi da 88 operatori di Asp, ospedali e laboratori): su nuovi contagi e tamponi effettuati i numeri «provenivano dalla piattaforma integrata, caricati dai miei colleghi del Servizio 4 diretto da Mario Palermo (fra gli indagati, ndr)». Scondotto chiarisce: «Io davo per reali questi dati, dando per scontato che venissero immessi in maniera veritiera».
Nell’ordinanza, grazie al nuovo lavoro dei Nas si effettua una scansione molto certosina: tutte le intercettazioni, al netto del tasso di scabrosità, vengono comparate con i dati poi effettivamente comunicati. Un matching che però corrisponde al flusso quotidiano delle statistiche, senza tenere conto della somma dei 7 giorni – o talvolta anche relativa a 15 giorni o a un mese – sui parametri che sarebbero stati alterati nel bollettino settimanale dell’Iss.
Il gip si limita a constatare che «non appaiono giustificabili le scelte dei quotidiani aggiustamenti dei dati aggregati da parte degli indagati, raccolti ed elaborati con tecniche e modalità rudimentali, che consentivano il rispetto del paramento della correttezza e della qualità del dato, finendo per dar luogo a dati infedeli». Ma non è ancora dimostrato quanto la presunta falsificazione di questi dati (che «non venivano trasmessi quotidianamente e finivano, per un tempo indeterminato, in una “zona grigia” da cui attingere per effettuare scostamenti al rialzo o al ribasso»), a conti fatti, abbia influito sui report periodici che a loro volta determinano la scelta del colore della zona.
Sulla premessa i magistrati di Palermo sono certi: i dati contestati sono falsi. Ed è, fra gli altri, la stessa Di Liberti a confessarlo «pacificamente», sia nell’interrogatorio del 15 aprile sia in una memoria difensiva in cui l’ex dirigente «ammette senza alcuna riserva i fatti storici così come rappresentati nell’ordinanza» del gip di Trapani.
Ce n’è abbastanza, per il giudice, affinché venga comunque fuori un duro giudizio “etico” (l’unico espresso), al netto del «doveroso approfondimento investigativo» invocato. «A prescindere dalla reale finalizzazione delle continue falsificazioni sui dati rispetto al raggiungimento di specifici obiettivi di carattere politico ed economico», scrive il gip Lo Bue, l’indagine svela «uno scenario desolante in cui con assoluta superficialità e con una approssimazione, ben lontana dagli standard di professionalità richiesti per l’elaborazione di dati corretti e di qualità, venivano gestiti dati tanto significativi per il monitoraggio della pandemia».