Da Saguto a Montante, le icone dell’antimafia finite nella polvere

Di Franco Nicastro / 14 Maggio 2018

Il tramonto dell’antimafia militante è cominciato con le prime ombre alzate quattro anni fa su Antonello Montante, oggi arrestato, e con la caduta di Silvana Saguto, travolta dall’inchiesta che ha alzato il velo su un «sistema» di gestione disinvolta e interessata dei beni confiscati. Poi, come nel gioco del domino, un birillo ha trascinato dietro di sé tutta la filiera. E ha prima bruciato Pino Maniaci, bandiera dell’informazione «coraggiosa e minacciata», accusato di chiedere denaro per ammorbidire le sue inchieste.

Poi ha scosso Antonio Ingroia, l’ex pm del processo sulla «trattativa» finito nel cono d’ombra delle inchieste della magistratura che gli contesta spese ingiustificate come amministratore di «Sicilia e servizi», una partecipata regionale. E infine ha spazzato via Roberto Helg, il presidente della Camera di commercio di Palermo che mentre tuonava contro la mafia del pizzo chiedeva tangenti per fare aprire un punto vendita all’aeroporto di Punta Raisi.

Le prime avvisaglie del terremoto che ha investito l’antimafia popolata da molti paladini di una Sicilia incorruttibile erano arrivate con la caduta di Massimo Ciancimino e con lo smantellamento delle sue prove taroccate su cui hanno alzato il velo prima il processo per calunnia e infine le condanne. Il caso più paradossale è quello del giudice Saguto, anzi ex giudice. Non è stata arrestata ma il Csm l’ha destituita prima ancora che arrivasse la sentenza del processo in corso a Caltanissetta. Era già abbastanza chiaro lo spaccato ricostruito dalla polizia tributaria: Saguto aveva messo su, mattone su mattone, un modello di consulenze, incarichi e favori che rispondeva, dice l’accusa, più a logiche di arricchimento che a esigenze di giustizia. Il caso è diventato la punta emergente di un movimento antimafia finito nella polvere per avere sacrificato la propria credibilità con condotte che rovesciano il senso di un impegno proclamato ma non coerentemente praticato.  Come nel caso di Montante.

Spinta dalle denunce di collusioni e corruzioni, rapida era stata la sua scalata negli organismi di rappresentanza dell’economia produttiva: era stato il capo della Confindustria siciliana e poi il responsabile della legalità nella Confindustria nazionale, oltre che il presidente della Camera di commercio di Caltanissetta. Il suo accreditamento era basato sull’immagine di un imprenditore che raccoglie e rilancia l’eredità morale di Libero Grassi, il primo a dire no alla mafia del pizzo e isolato per questo dalla stessa Confindustria. Ora la scoperta di una rete di protezione e di funzionari corrotti che facevano velo ai suoi rapporti con ambienti mafiosi è un colpo pesante all’immagine di un movimento che si era conquistato spazi di credibilità non solo nella politica (si pensava a Montante per nominare il capo dell’agenzia nazionale dei beni confiscati) ma anche tra magistrati, funzionari e uomini delle istituzioni.

Sono le contraddizioni che affiorano tra le pieghe di casi emblematici e che sono segnalate dal fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, con giudizi molto severi: «L’antimafia – ha detto don Ciotti – è ormai una carta d’identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione. L’etichetta di antimafia oggi non aggiunge niente. Anzi».

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Redazione
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