Il filone romano dell’inchiesta, nei confronti dell’associazione mafiosa Cosa nostra ed in particolare del clan dei Rinzivillo, ha consentito di fare luce anche sulle fasi dell’estorsione nei confronti della famiglia Berti, titolare del rinomato Cafè Veneto, nella centralissima Via Veneto della Capitale.
Gli investigatori hanno documentato come il boss Salvatore Rinzivillo, sollecitato dal comandante gelese Santo Valenti, assistito da un nutrito numero di complici, con il ruolo di “ambasciatori” delle richieste estorsive e impegnati nella individuazione delle vittime, fosse l’autore di chiare minacce volte a condizionare la gestione di forniture nell’ambito del mercato ortofrutticolo di Roma.
Più nel dettaglio, anche giovandosi dei rapporti instaurati con due infedeli “uomini di Stato”, Marco Lazzari e Cristiano Petrone, impiegati dal boss per l’acquisizione illecita di notizie sulla vittima attraverso l’abusivo accesso alle Banche Dati in uso alle Forze di Polizia, nonché, il solo Lazzari, anche per l’effettuazione di sopralluoghi al Cafè Veneto, Salvatore Rinzivillo e Santo Valenti avrebbero compiuto atti diretti in modo non equivoco ad ottenere dalla famiglia Berti, indebitamente, la somma di 180 mila euro. I due boss sarebbero stati coadiuvati da pregiudicati e non, gelesi e romani: Angelo Golino, romano, deputato alla consegna di pizzini con le minacce, Salvatore Iacono, anche lui romano, che disponeva di armi, e Rosario Cattuto, gelese, anche lui responsabile di diretti atti intimidatori e minacce verbali.
La vittima dell’estorsione Aldo Berti, individuato quale persona solvente ed economicamente capace di soddisfare le indebite richieste ha da un lato presentato una formale denuncia contro gli estorsori ma, dall’altro, per risolvere la questione si sarebbe rivolto al pregiudicato mafioso palermitano Baldassarre Ruvolo, primo collaboratore di giustizia e poi estromesso dal programma di protezione, del clan dei Galatolo dell’Acqua Santa di Palermo.