Per le stragi che hanno cambiato la storia dell’Italia non si potrà mai finire di indagare: al quarto piano del Palazzo di Giustizia di Caltanissetta, da anni si sente questa frase a proposito degli eccidi di Capaci del 23 maggio e di via D’Amelio del 19 luglio 1992. Sì, perché le stragi in Sicilia, insieme alla Tangentopoli milanese, sancirono la fine della Prima Repubblica, con Cosa Nostra che decide di “presentare il conto” a quegli esponenti politici con i quali era stata in contatto e aveva potuto operare senza quella repressione che lo Stato mise in atto nell’estate del 1992. Se l’ala militare della mafia è stata individuata e colpita duramente con decine di condanne all’ergastolo sia per la strage Falcone che per quella di Borsellino, ci sono altri filoni di indagine aperti su possibili convergenze esterne a Cosa Nostra, a cominciare dalla P2, ai servizi segreti deviati, ma anche la pista nera, con la presenza in Sicilia, tra la fine del 1991 e i primi mesi del 1992, del terrorista Paolo Bellini, di recente condannato all’ergastolo per la strage di Bologna e in stretto contatto con Antonino Gioè, uno dei “boia” di Capaci, poi arrestato e poi forse “suicidato” in carcere a Roma prima che cominciasse a collaborare come fecero Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo.
Un altro concetto viene da anni ribadito alla Dda nissena dove si è fatta luce anche su clamorosi depistaggi, forse cominciati nel 1989 con le lettere calunniose del “Corvo” proprio nei confronti di Giovanni Falcone e il fallito attentato dell’Addaura di qualche mese dopo: la letteratura giudiziaria è una cosa, ma per arrivare ai processi ci vogliono prove solide, che devono reggere al gran desiderio di verità per l’eliminazione di tre magistrati, come Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e degli agenti delle loro scorte Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Per le stragi Falcone-Borsellino a Caltanissetta c’è un pool di magistrati composto dal procuratore Salvatore De Luca, dai sostituti Pasquale Pacifico, Nadia Caruso, Caudia Pasciuti, Davide Spina che lavorano a stretto contatto con i due “applicati” della Direzione nazionale antimafia Francesco Del Bene e Nico Gozzo e in collegamento gli aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco della Dda di Firenze e con Giuseppe Lombardo procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Il convincimento, scaturito da numerosi processi e dalle rivelazioni di decine di collaboratori di giustizia, è che ci sia stato un unico filo conduttore e un “patto” non solo tra Cosa Nostra e ’ndrangheta, ma anche con pezzi deviati delle istituzioni, P2 e destra eversiva che si è macchiata non solo delle stragi del 1992 e del 1993 in Continente, ma anche di alcuni delitti eccellenti in Calabria, come quello del procuratore generale della Cassazione, Antonino Scopelliti e di alcuni carabinieri uccisi in Calabria, come emerso dal processo “’Ndrangheta stragista” che vede alla sbarra il palermitano Giuseppe Graviano.
Per l’uccisione di Giovanni Falcone, trent’anni di indagini non hanno ancora fatto piena luce su quanto avvenne prima e nell’immediatezza della strage: non bisogna dimenticare che Falcone doveva essere ucciso a Roma e lì Totò Riina inviò un gruppo di fedelissimi capeggiati dall’ancora latitante Matteo Messina Denaro e da Giuseppe Graviano, per poi farli tornare indietro perché la strage doveva farsi in Sicilia. Così fu, con un attacco militare senza precedenti, con 500 kg di tritolo piazzati sotto un cunicolo dell’autostrada per Palermo, che Brusca disse di aver fatto saltare lui pigiando il telecomando da una collinetta soprastante. Una ricostruzione processuale che potrebbe essere rivisitata, dopo che qualche pentito ha parlato di carica esplosiva ulteriormente potenziata con altro materiale proprio alcune ore prima della strage dai servizi segreti. È questa l’ipotesi del “doppio cantiere”, emersa al processo “Capaci bis”, insieme all’impronta di una donna repertata dopo l’analisi del Dna su un guanto trovato sul luogo dell’eccidio.
E poi c’è l’incursione negli uffici del Ministero dove lavorava Giovanni Falcone con la manomissione delle agende del giudice, come ha accertato il consulente Gioacchino Genchi. Nelle agende elettroniche di Falcone c’erano anche appunti sulle cose da fare nei mesi successivi, molto probabilmente anche sull’attività di Gladio, la struttura paramilitare operante per anni in Italia e anche in Sicilia, sciolta nel 1990, e collegata al centro Scorpione di Trapani, sede militare, logistico-operativa, utilizzata dal Sismi, i servizi segreti militari italiani.Trapani che resta forse la provincia con più segreti inconfessabili del patto tra mafia, politica, servizi segreti deviati e logge massoniche vicine alla criminalità. E soprattutto nel Trapanese si concentrano le ricerche per la cattura dell’ultimo grande latitante di Cosa Nostra, quel Matteo Messina Denaro che i magistrati ritengono, insieme a Giuseppe Graviano, il depositario dei segreti che Totò Riina si è portato nella tomba.