Cronaca
Coronavirus, uno “Spallanzani” da aprire a Catania: ma il progetto è rimasto in un cassetto
CATANIA – Magari nessuno, in questi giorni frenetici, se ne sarà ricordato. Anche perché forse nei cassetti della Regione potrebbero essersi perse le tracce. Ma non nei carteggi “virtuali” (eppure incancellabili) delle mail spedite e, soprattutto, ricevute.
Un polo d’eccellenza sul biocontenimento, il più grande al Sud e il terzo in Italia dopo lo Spallanzani di Roma e il Sacco di Milano, da realizzare in Sicilia. A Catania, nella struttura dell’Ascoli-Tomaselli. Il progetto – tutt’altro che utopico – era stato lanciato, assieme ad altre iniziative che oggi avrebbero collocato la Regione in una posizione di eccellenza nella gestione dell’emergenza coronavirus, da Sergio Pintaudi, ex direttore del dipartimento di Emergenza e della struttura complessa di Anestesia e rianimazione al Garibaldi di Catania. Uno dei medici più prestigiosi, in questi settori, a livello nazionale, oggi in pensione e consulente scientifico del Capo di Stato Maggiore della Marina Militare.
Pintaudi aveva proposto l’iniziativa partendo dalla necessità strategica di un centro “Dsl3” (lo Spallanzani e il Sacco sono “Dsl4”, ovvero di «alto biocontenimento») per coprire le esigenze del Meridione e della Sicilia. Non presagendo alcunché sulla diffusione del coronavirus, ma basandosi sui dati scientifici relativi al sempre maggiore tasso d’incidenza delle malattie che richiedono questo tipo di strutture “blindate”. C’era stato anche un lavoro preparatorio, favorito dagli ottimi riscontri già ottenuti al Garibaldi, con la classificazione di Fontanarossa come “aeroporto sanitario” al pari di quelli di Fiumicino e Malpensa.
«Spero che l’evento che stiamo vivendo ci insegni qualcosa in termini di programmazione: ogni anno c’è un virus diverso da gestire, e statisticamente ogni cinque-sei anni c’è un Covid-19, o giù di lì, da combattere», si limita a dire Pintaudi dalla sua casa di Catania, dov’è impegnato a correggere le bozze di un libro sul biocontenimento. Nessuna risposta mai ricevuta, da Palermo, sul progetto dell’Ascoli-Tomaselli, che «si prestava anche strutturalmente, essendo stato concepito in origine come lebbrosario».
Così come sono in naftalina altre buone prassi avviate a Catania. C’è il “Nato”, documento del ministero della Salute sulla «pianificazione della risposta sanitaria in caso di situazioni di emergenza nazionale», che attivava il Garibaldi, «mai implementato dalla Regione». C’è il Piano di contingenza sanitario regionale sui migranti del 2017, in cui sempre il Garibaldi era «ospedale di riferimento per il biocontenimento», anch’esso rimasto lettera morta. E, infine, l’appendice delle “Linee di indirizzo per la gestione del sovraffollamento nelle strutture di Pronto soccorso della Regione Siciliana”, in cui c’era indicata «la strutturazione di aree di biocontenimento in ogni pronto soccorso»: l’unica in Sicilia, a dispetto delle direttive di Protezione civile, è attiva al Garibaldi. Perché, rivela Pintaudi, «ogni giorno, al di là del coronavirus, in pronto soccorso arriva almeno un caso di malattie infettive. Dove li metti? Dove li tratti?». Domande ancor più delicate in questi giorni di caos virale.
Twitter: @MarioBarresi
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