«Ne parliamo dopo a mente fredda». Antonello Montante sembra quasi impassibile, quando, alle nove meno un quarto della sera, l’avvocato Giuseppe Panepinto lo mette al corrente della sentenza. Senza perdersi in chiacchiere, ma con un semplice numero: otto. Otto anni è la condanna per l’ex leader di Confindustria nel processo d’appello a Caltanissetta. Poco più della metà, rispetto ai 14 anni del primo grado. Tendendo conto che, in entrambi i casi, il rito abbreviato prevede la riduzione di un terzo: quindi si partiva virtualmente da 21 anni e adesso si arriva a 12. Cosa significa? Significa che, dopo quasi otto ore di camera di consiglio, nel pallottoliere finale la condanna viene quasi dimezzata; ed è comunque minore rispetto agli 11 anni e 4 mesi chiesti dal pg Giuseppe Lombardo. Ma significa anche che secondo la corte d’appello nissena (presidente Andreina Occhipinti, a latere Giovanbattista Tona e Alessandra Giunta) il “sistema Montante” esiste. eccome. Resta in piedi quasi tutto l’impianto accusatorio dell’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e all’accesso abusivo al sistema informatico.
«Sono convinto che la forza delle mafie debba essere individuata nella debolezza con cui le istituzioni preposte a combattere affrontano questo problema», scandisce in mattinata Nicola Morra, presidente dell’Antimafia nazionale. La difesa di Montante, ottimista alla vigilia, puntava a smontare il reato associativo oltre che a ridimensionare la portata della rete spionistica di cui l’ex paladino dell’antimafia è ritenuto l’ispiratore e il capo: in cambio di favori, esponenti delle forze dell’ordine gli avrebbero dato informazioni su inchieste a suo carico, informazioni sui “nemici”, oltre a dossier su personaggi influenti. E infatti è proprio Carlo Taormina a tradire una certa delusione: «Noi riteniamo che questa sentenza non soddisfi l’obiettività delle cose. Sembra una sentenza più diretta a confermare l’impianto accusatorio per quelle che sono state le movenze originarie, ma che non risponde alla realtà delle cose», smozzica il professore. E scandisce: «Rispetto al primo grado c'è stato un ridimensionamento, anche se non siamo assolutamente soddisfatti e quindi proporremo ricorso per Cassazione».
Sotto processo ci sono anche il capo della security di Confindustria, Diego Di Simone (in primo grado condannato a 6 anni e 4 mesi), che attraverso il suo braccio destro, il sostituto commissario Marco De Angelis (3 anni la pena del gup) avrebbe effettuato una serie di accessi abusivi al sistema Sdi acquisendo notizie riservate. Di Simone ha avuto 5 anni; De Angelis 3 e 6 mesi. Assolto il colonnello Gianfranco Ardizzone, ex comandante provinciale della guardia di finanza di Caltanissetta, dopo i 3 anni in primo grado. «Soddisfatto» si dice ovviamente l’avvocato Giuseppe Dacquì. E assolto anche il questore Andrea Grassi, dirigente della prima divisione dello Sco, accusato (un anno e 4 mesi la pena disposta del gup) di aver riferito a Montante notizie riservate. «Gli è stato ridato anche l’orgoglio di dichiararsi, come fatto dalle prime battute delle indagini, un uomo dello Stato», esultano i difensori Cesare Placanica e Walter Tesauro.
Cade, come detto, il capo sulla violenza privata ai danni di Alfonso Cicero, che perde la provvisionale calcolata in 10mila euro dal gup. Ma Annalisa Petitto, avvocata dell’ex presidente dell’Irsap, si mostra tutt’altro che delusa: «Per l’ennesima volta è stato confermato ciò che il mio assistito, teste chiave dell’inchiesta, ha denunciato, già dal 2015, alla Dda di Caltanissetta. Cicero, proprio per avere subito gravissime ritorsioni poste in essere a suo danno dal Montante e dai suoi sodali, è stato ammesso quale parte civile nell’ambito di due altri processi in corso a Caltanissetta, riguardanti la prima e la seconda tranche dell’inchiesta sul 'sistema Montante».
Ma come si arriva alla riduzione di pena? In attesa ovviamente delle motivazioni e senza il dispositivo (letto ieri sera in aula, ma non ancora nella disponibilità delle parti), si può soltanto ipotizzare un conteggio giuridico-matematico. E cioè che lo “sconto” da 14 a 8 anni potrebbe essere computato in questo modo: un anno in meno per i due capi d’imputazione caduti, più altri due anni per le vicende che riguardano Ardizzone (il capo “ R” relativo all’ipotesi di corruzione, con assoluzione per i fatti commessi dal 2011 in poi e la prescrizione dei precedenti). E così si scenderebbe a 11 anni. Ne restano altri 3 in meno, frutto di un diverso ricalcolo delle ipotesi di corruzione: partendo da una diverso tetto di pena massima (modificato con norme nel 2008, nel 2012 e nel 2015) lo zoccolo duro dei 10 anni di pena ricevuto in primo grado potrebbe essere stato ridotto di poco meno di un terzo. «Resta il problema dell’associazione che non riteniamo proprio configurabile. Alcune ipotesi di corruzione, se pure ridimensionate, non sono rispondenti a quelle che sono le nostre ricostruzioni», spiega ancora Taormina.
Ci sarà tempo per leggere con più attenzione il dispositivo, il chiarimento definitivo arriverà con le motivazioni. La sensazione che si respira – a tarda sera, quando si svuota il tribunale di Caltanissetta, popolato soltanto dalla “tribù” (avvocati, parti civili, giornalisti) del processo Montante – è quella di una sentenza forse più asciutta. Meno di pancia, e da ieri di certo non più collegabile al riflesso condizionato del senso di “tradimento” vissuto anche fra i magistrati nisseni, molti dei quali spesso attovagliati nella “stanza della legalità” con il profeta dell’antimafia di plastica, per poi scoprire (non proprio tutti con il diritto allo stupore) le nefandezze di un’associazione a delinquere. Cosa succede adesso? Montante, del quale la difesa continua a sostenere l’innocenza e il profilo di vero antimafioso, adesso rischia di finire in carcere. C’è l’ultima partita in Cassazione, ma dopo la sentenza di ieri sembra improbabile un ribaltamento del destino giudiziario del guru della legalità confindustriale. Tanto più che incombe la seconda tranche sulla corruzione (che vede alla sbarra, fra gli altri, Rosario Crocetta), al netto del fascicolo originario, quello sul concorso esterno in associazione mafiosa, ancora non archiviato. Si vedrà. Montante, tiratissimo all’arrivo in tribunale ieri mattina, ne è consapevole. Così come magari, nel suo intimo, sarà pure persuaso di una verità che nessuno ha mai avuto il coraggio di esplicitare. E cioè che senza la sua hybris, mista a un delirio di onnipotenza, la raffica di reati (quasi tutti provati dopo due gradi di giudizio, molti dei quali compiuti dopo la discovery dell’inchiesta per mafia) per cui è stato condannato anche ieri non ci sarebbe stata. La lesa maestà, per un intoccabile deus ex machina della politica e dell’economia siciliana. L’anfimafia che si fa mafia. Senza tutto questo, forse, oggi Montante sarebbe ministro. O chissà che cosa. Magari sarebbe sempre lui il capo di un “sistema” oggi ammaccato dalle condanne. Ma che – in Sicilia così come a Roma – non è ancora stato debellato. E molti degli Antonello-boys , riciclati, sono ancora lì.
Twitter: @MarioBarresi