GIUDIZIARIA
Concorso esterno, la Procura di Catania appella la sentenza di assoluzione di Mario Ciancio
I legali dell'imprenditore ed editore: «I pm ripropongono gli stessi temi già bocciati dai giudici»
Riformare la sentenza impugnata e disporre il sequestro e la confisca dei beni, negati in primo grado. E’ la richiesta della Procura di Catania, firmata dall’aggiunto Agata Santonocito, nell’atto d’appello presentato contro l’assoluzione, con la formula «perché il fatto non sussiste», pronunciata, il 26 gennaio scorso, dalla prima sezione penale del Tribunale nel processo per concorso esterno all’associazione mafiosa celebrato nei confronti dell’imprenditore ed editore Mario Ciancio Sanfilippo, di 92 anni.
La Procura aveva chiesto la condanna a 12 anni e la confisca dei beni che gli erano stati dissequestrati. Il processo, iniziato nel 2017, dopo anni di indagini e decisioni contrastanti di diversi gip, verteva su presunti rapporti con esponenti di spicco di Cosa nostra etnea legati alla “famiglia” Santapaola-Ercolano. Ipotesi sempre contestata dall’imprenditore e dai suoi legali, gli avvocati Carmelo Peluso, Giulia Buongiorno, e Francesco Colotti.
Nell’atto d’appello, depositato il 14 ottobre, la Procura contesta le conclusioni del Tribunale che, scrive, «non possono essere condivise e meritano censura» perché «sono il frutto di una valutazione incompleta di alcuni elementi di prova più significativi acquisiti». Il pm parla di «un’inammissibile parcellizzazione e semplificazione degli elementi di prova ritenuti provati dallo stesso collegio in quanto non sono stati valutati alla luce delle conoscenze acquisite – grazie alle sentenze definitive prodotte e alle dichiarazioni rese da chiamanti in correità escussi – in ordine alla modalità di azione della “famiglia catanese di Cosa nostra” e al ruolo e al rango dei soggetti coinvolti; sia di un difetto di prospettiva diacronica che collochi in modo compiuto i fatti sulla linea del tempo e della concatenazione degli eventi che hanno riguardato la predetta pericolosa e radicata associazione mafiosa».
Nell’ambito della stessa inchiesta, il 22 gennaio 2022, con decisione della Cassazione che ha ritenuto inammissibile il ricorso della Procura generale, è diventato definitivo il dissequestro dei beni riconducibili all’imprenditore che era stato disposto dalla Corte d’appello di Catania, dopo essere stati sequestrati il 24 settembre del 2018.
I legali
«L’appello del Procuratore della Repubblica censura la sentenza di assoluzione di Mario Ciancio riproponendo gli stessi temi che ormai da quasi dieci anni sono stati sottoposti alla valutazione dei giudici, sia nel procedimento di prevenzione che in quello di merito, e sino a oggi con un esito sempre sfavorevole alle tesi dell’accusa – ha dichiarato il collegio di difesa dell’editore e imprenditore formato dagli avvocati Carmelo Peleso, Giulia Buongiorno, e Francesco Colotti -. Affronteremo con doverosa attenzione anche il grado di appello, confidando nella forza della verità e della ragione, ma soprattutto nella forte tempra di un imputato novantaduenne».
La parte civile
«Rinnovo la mia fiducia nei confronti dei pm del processo, che credo abbiano ragioni fondate, per proseguire» e «noi siamo pienamente soddisfatti dell’andamento del processo perché crediamo che tutta la verità storica è stata svelata e, in quella sede e in quel tempo, abbiamo chiesto, con il nostro avvocato, come risarcimento un euro», ha affermato Lo afferma Dario Montana, fratello del commissario Beppe assassinato da Cosa nostra il 28 luglio del 1985, annunciando in conferenza stampa di non presentare atto d’appello alla sentenza di assoluzione di Ciancio. La famiglia Montana, assistita dall’avvocato Goffredo D’Antona, si era costituita parte civile per un necrologio che il quotidiano La Sicilia non pubblicò sull’uccisione da parte della mafia del capo della “Catturandi” della squadra mobile di Palermo.
«Noi siamo disgustati dal comportamento di questa città – aggiunge Montana – la nostra costituzione di parte civile era un’occasione per coinvolgere la città nelle discussioni del processo, che nessuno voleva fare a Catania». Tra «le assenze» con cui Montana è critico ci sono «le associazioni antiracket». «La vera forza della mafia, come diciamo da anni – osserva Dario Montana – non sta nella mafia, ma al di fuori della mafia. Io credo che questa città abbia voglia di mafia: stiamo discutendo del clima culturale e che c’è una città che è abituata a girarsi dall’altra parte. Il diritto alla verità è un diritto troppo importante per essere lasciato in mano soltanto ai magistrati o a certi giornalisti».
Sul ruolo dei giornalisti Montana ha detto di «non avere stima di qualcuno di loro». L’avvocato Goffredo D’Antona ha ricordato che «nell’arringa, concordata con la famiglia Montana, tenni ben distanti la posizione dell’imputato da quella del giornale La Sicilia, poi esistono giornalisti e giornalisti e avvocati e avvocati».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA