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Catania, la “difesa” personale del boss Ciccio Napoli: «Non sono capo, dopo il carcere ho cambiato vita»

Nelle motivazioni del Riesame le dichiarazioni del rampollo dei Ferrera arrestato nel blitz “Sangue Blu”  e considerato  il numero uno della famiglia Santapaola-Ercolano La replica dei pm

Di Redazione |

Ciccio Napoli, considerato il numero 1 di Cosa nostra catanese, è stato un fiume in piena all’udienza del Riesame, lo scorso ottobre. Una difesa, con tanto di riferimenti a verbali e ordinanze, che però non ha convinto i giudici del collegio che lo hanno, infatti, lasciato in carcere. I dettagli di quello che il nipote di Salvatore Ferrera (‘u Cavadduzzu) e figlio di Grazia  Ferrera (cugina di Nitto Santapaola) ha detto è riportato nero su bianco nelle motivazioni del Tribunale della Libertà che sono state depositate da qualche giorno. 

«I tredici anni di detenzione scontati – ha detto Napoli nelle lunghe dichiarazioni spontanee – sono serviti a farmi decidere di cambiare vita». Il boss, che già sta affrontando l’udienza preliminare dell’inchiesta Sangue Blu che a fine settembre lo ha portato in cella, ha parlato delle rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia che avevano fatto il suo nome – ancor prima della sua scarcerazione nel 2019 – come nuovo reggente della famiglia Santapaola-Ercolano. «Ma io dopo che sono stato scarcerato – ha aggiunto – ho cercato di lavorare onestamente prima in un panificio, poi con molti sacrifici ho aperto un’enoteca, dove lavoravo alla luce del sole tutti i giorni. E quindi lo svolgimento di questa attività lavorativa e la continua esposizione a qualsiasi attacco sono condotte incompatibili con il ruolo di reggente di un’associazione mafiosa», ha ribadito. 

L’enoteca a cui Napoli, difeso dagli avvocati Giuseppe Marletta e Salvatore Pace, fa riferimento è quella che è stata posta sotto sequestro proprio perché, secondo la magistratura, sarebbe stata intestata fittiziamente a una testa di legno per evitare possibili indagini patrimoniali. 

Il rampollo della famiglia Ferrera ha ammesso di aver incontrato personaggi della mafia catanese. «Dopo la mia scarcerazione – ha detto ai giudici del Riesame – ho incontrato diverse persone tra cui Silvio Corra e Salvatore Scavone ma ho detto loro di non voler più far parte di alcuna organizzazione mafiosa, tant’è che mi tenevo lontano da summit o riunioni tra affiliati». Per gli inquirenti la sua assenza a queste riunioni sarebbe stata solo una strategia “da fantasma” per evitare possibili intercettazioni audio e video. Silvio Corra e Salvatore Scavone (ex reggenti del gruppo santapaoliano dei Nizza) sono diventati collaboratori di giustizia e hanno raccontato senza mezzi termini che il reggente della famiglia mafiosa «era proprio Napoli». «Corra e Scavone mi hanno tratto in inganno, mi avevano detto quando ci siamo incontrati che si trattava di questioni loro e non di questioni associative», si è difeso il capomafia.

Ma se queste frasi le aveva già dette nell’interrogatorio di garanzia, Napoli al Tribunale aggiunge molto altro.  E va sullo specifico: «Dopo l’esecuzione dell’operazione Overtrade, le dichiarazioni dei pentiti sul mio conto, in particolare quelle di Santo La Causa, hanno avuto molto clamore e molti si sono convinti che sarei stato io il reggente del clan. Uscito dal carcere invece ho capito i miei errori e ho sperato – ha aggiunto – che la mia vita avrebbe dimostrato il mio allontanamento dalla criminalità organizzata. Ma poi, sarebbe stato sciocco tornare a far parte dell’associazione visto che mi sarei esposto al rischio di un altro arresto».

Il boss ha descritto la sua giornata tipo: «Il mio stile di vita – cammino da solo, non ho scorta, è possibile trovarmi tutti i giorni in enoteca – è inconciliabile con la posizione di reggente, un soggetto in posizione apicale avrebbe dovuto adottare particolari cautele al fine di evitare tra l’altro di esporsi ad attentati omicidiari da parte dei nemici».

Ed è stato proprio Salvatore Scavone a rivelare ai magistrati pochi mesi fa che c’era stato un piano per ammazzare il reggente visto che alcune mosse non sarebbero state ben viste soprattutto dalla parte dei Nizza. Poi il piano era sfumato, anche perché Napoli si sarebbe presentato dal pentito chiedendogli spiegazioni «su alcuni movimenti sospetti».

“U cavadduzzu” ha ammesso un altro sbaglio: «Ho intrattenuto rapporti con Buffardeci (considerato il suo alter ego dalla procura) che sapevo essere pregiudicato, ma è un mio amico da tempo e comunque parlavamo solo di cose lecite».

L’imputato, per mostrarsi preparato, ha anche letto l’ordinanza Agorà, che lo scorso giugno ha portato in carcere i componenti della cabina di coordinamento di Cosa nostra. «Non ho mai intrattenuto rapporti con altri affiliati al clan e infatti nelle conversazioni captate nell’officina di Turi Rinaldi non è mai stato fatto il mio nome».

Una “difesa”, quella di Ciccio Napoli che, però, non ha convinto per nulla i pm Rocco Liguori e Lina Trovato. «Napoli è una persona culturalmente molto distante dalla figura del “classico” mafioso ed era ben consapevole che uscito dal carcere avrebbe dovuto tenere dei comportamenti diversi da quelli che normalmente contraddistinguono un soggetto che riveste una posizione apicale all’interno di un sodalizio mafioso – si legge nelle motivazioni – posto che, altrimenti avrebbe immediatamente attirato l’attenzione delle forze dell’ordine».

E poi i magistrati hanno confutato il fatto che non si parlasse di lui nelle intercettazioni Agorà: nel corso di una conversazione del 13 novembre 2019  Rinaldi e Melo Renna «hanno manifestato l’intenzione di scrivere una lettera a Napoli».

Per il Riesame non ci sono dubbi: è Francesco Napoli il capo di Cosa nostra.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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