Catania, fu vittima e non colluso Beni restituiti a eredi imprenditore

Di Redazione / 29 Aprile 2016

I beni dell’imprenditore Vincenzo Basilotta morto l’11 maggio dello scorso anno, sequestrati in applicazione della legge antimafia, dovranno essere restituiti ai legittimi proprietari. Lo ha stabilito la seconda Corte d’appello di Catania che, accogliendo la richiesta dei suoi legali, gli avvocati Carmelo Peluso e Vito Branca, ha “revocato il decreto del Tribunale” emesso nel 2012 e “ordinato la restituzione di tutti i beni agli aventi diritto”.

Nel provvedimento i giudici rilevano che l’imprenditore “era oggetto di una vera e propria richiesta estorsiva” da parte di Cosa nostra e che “non si può ritenersi raggiunta la prova dell’appartenenza o del concorso esterno” alla mafia, e quindi “non sussiste il presupposto necessario per la confisca di prevenzione”. Basilotta nel processo Dionisio era stato condannato a tre anni di reclusione per associazione mafiosa. In appello la condanna era stata portata a 5 anni. Ma la Cassazione aveva annullato con rinvio. Il procedimento è pendente.

La posizione dell’imprenditore, deceduto nel 2015, è ancora aperta nel processo ‘Dionisiò, davanti la terza Corte d’assise di Catania, dopo l’annullamento con rinvio deciso dalla Cassazione. I suoi legali, che hanno depositato la sentenza negli atti del procedimento, non hanno chiesto la chiusura della posizione per decesso dell’imputato, ma ne sollecitano l’assoluzione.

Il ruolo di Vincenzo Basilotta e della sua impresa di movimento terra, la Incoter, è tra i punti d’accusa in importanti processi che sono in corso di svolgimento a Catania, e in particolare quello, pendente in secondo grado, per concorso esterno all’associazione mafiosa all’ex presidente della Regione Siciliana e leader del Mpa, Raffaele Lombardo. Nel decreto che annulla il sequestro dei beni, la seconda Corte d’appello di Catania scrive che “sia dalle intercettazioni versate in atti che dalle dichiarazioni prodotto non si può che ricostruire la figura di Vincenzo Basilotta quale quella di un imprenditore che versava sistematicamente rilevanti somme di denaro per continuare a lavorare, ricevendo richieste, in tal senso, anche dal reggente dell’epoca dell’associazione di stampo mafioso, Vincenzo Aiello, che, in un’occasione particolare lo minacciava pesantemente in caso non avesse continuato a pagare”. “Nel caso in esame – concludono i giudici – nulla emerge in ordine alla tipologia e all’effettiva portata del rapporto tra Basilotta e l’associazione mafiosa”.

E per la Corte “non può dunque ritenersi raggiunta la prova dell’appartenenza o del concorso esterno” dell’imprenditore alla mafia e quindi “non appare sussistente il presupposto indispensabile per potere procedere alla confisca di prevenzione”.

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