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Il processo bis a caltanissetta

Caso Montante, il “non sistema” di gregari e big misteriosi

Le motivazioni della condanna a 8 anni in Appello

Di Mario Barresi |

ll passaggio più significativo è quello in cui si smonta il “sillogismo dell’antimafia” imperante in Sicilia per anni. Affermando che «non vi è logica» nell’assunto secondo cui «la bontà delle iniziative legalitarie e antimafia debba fare automaticamente escludere l’esistenza di condotte associative organizzate per la realizzazione di una serie indeterminata di reati», che gli «aderenti» – e cioè Antonello Montante e la sua cricca di corruttori e spioni – ritengono «specificamente funzionali ai loro obiettivi», e «poco conta» che siano essi «personali, collettivi, nobili o ignobili». Ergo: si può anche essere diventato un’icona dell’antimafia, circondato dal «consenso» di ministri, prefetti magistrati, vertici delle forze dell’ordine e pezzi (grossi) dello Stato, ma questo “patentino” non conferisce l’automatica immunità rispetto al codice penale.

L’antimafia ribaltata

E qui siamo siamo all’epistemologia dell’antimafia taroccata e affarista. Lo scrivono i giudici della prima sezione penale della Corte d’appello di Caltanissetta, nelle motivazioni della sentenza che 500 giorni fa, l’8 luglio 2022, condannò l’ex leader di Confindustria Sicilia a 8 anni (in primo grado ne aveva avuti 14) per associazione a delinquere finalizzata a corruzione e accesso abusivo al sistema informatico. «Non è compito del processo penale – mettono le mani avanti i magistrati – accertare se il percorso politico associativo del gruppo che faceva capo a Montante fosse sorretto da intenzioni cristalline o esprimesse solo ambizioni di potere e finalità di lobbing». Perché, stoccata ai tanti Vip autoproclamatisi ingannati dal Montante “double face”, «tali verifiche appartenevano alle competenze degli organi istituzionali che avrebbero dovuto valutare all’epoca le iniziative proposte e quelle attuate, quando doveva decidersi nelle sedi competenti se sostenerle, apprezzarle, incoraggiarle e legittimarle». E in questa vicenda c’è uno «scenario di contesto lecito» (dove spiccano «le reti relazionali istituzionali e non, da lui tanto efficacemente coltivate») sul quale «si incista l’assetto associativo» che è oggetto del processo.Ed è a questo punto che i giudici d’appello (presidente Andreina Occhipinti, relatore Giovanbattista Tona, consigliere Alessandra B. Giunta) sono disposti a rinnegare anche l’effetto impattante della fortunata etichetta mediatica:

La coltre fumosa

«Dietro la coltre fumosa della locuzione “sistema” tanto spesso utilizzata anche in questo giudizio, nonostante sia più appropriata alla sintesi giornalistica che non all’analisi dei fatti tipici propria della giurisdizione, si perdono i percorsi che conducono ai più qualificati appoggi dei settori politici, istituzionali ed economici che hanno reso Montante una figura strategica con un ruolo di fatto e informale non classificabile nelle ordinarie e più trasparenti categorie della politica, dell’economia e delle istituzioni». Di chi sono questi «più qualificati appoggi»? I giudici li evocano nella parte finale, sul «trattamento sanzionatorio» di Montante, in cui si conferma l’aggravante dell’associazione a delinquere composta da più di 10 persone: l’ex presidente di Confindustria Sicilia «poteva contare su altri soggetti ancora non compiutamente identificati, ma le cui figure si stagliano anche numerose nella rete di collaborazione della quale disponeva». Alcuni sono imputati nel processo-bis.

Le 416 pagine delle motivazioni

Nelle 416 pagine di motivazioni d’appello, scritte con asciuttezza e rigore (tanto da “blindarle”, secondo le prime reazioni di chi le ha lette, rispetto allo scontato giudizio in Cassazione), si precisa che «non è compito di questo giudizio recepire supinamente, o per converso stigmatizzare, l’indubbio, vasto e talvolta incondizionato consenso di cui Montante poté godere», tanto più che «solo dopo» l’arresto «tale consenso si è dissolto e la rappresentazione anche mediatica del suo ruolo si è repentinamente capovolta». Allora occorre «concentrarsi su quel nucleo di comportamenti illeciti emersi dalle indagini e verificare se tutte le imputazioni siano sorrette da un quadro probatorio univoco». La risposta è affermativa (tranne che per le imputazioni di violenza privata, di simulazione di reato e di corruzione del colonnello Gianfranco Ardizzone), a partire dall’associazione a delinquere. Che esiste ed è una e una sola. Costituita da «articolazioni» che «operano sotto la direzione di Montante», le quali «sono certo costituite da parti di apparato di Confindustria, da alcuni esponenti degli organi investigativi e da altri dei servizi segreti». La raccolta di informazioni «contro i suoi nemici», da un lato. «In contesti per nulla occulti o riservati erano note non solo la sua capacità di influenza nelle più alte sfere degli ambienti istituzionali ed economici, non tanto del territorio, ma della Regione e del Paese. Ed era nota anche la sua complessa rete informativa». Montante «raccoglieva informazioni e le custodiva riservandosene l’uso». Inoltre, «plurime fonti riferiscono che egli si vantava di avere a disposizione dossier, pronti all’uso». E la seconda attività, con la complicità della guardia di finanza, allo scopo di «instillare» fra gli imprenditori «il convincimento che se non avessero sostenuto Montante e il suo gruppo non sarebbero stati considerati “imprese sane” e avrebbero subito controlli severi. In questo modo qualsivoglia focolare di dissenso poteva essere spento o comunque isolato».

Il “pontiere”

Tutti gli associati sono legati dal «pontiere» Montante. Con un enorme divario, misurato dai giudici, fra il «livello altissimo di relazioni istituzionali che il vicepresidente di Confindustria con delega alla legalità coltivava e appuntava» e le condotte, descritte dal processo con rito abbreviato, di «soggetti, con ruoli meramente gregari e di limitato rilievo negli assetti istituzionali, che guardavano a Montante come personalità capace di offrire protezione e vantaggi in ragione del suo credito presso i loro superiori». Non è una tesi “minimalista”, quella espressa dai giudici sulla caratura degli associati, piuttosto è realpolitik giudiziaria. Legata al ruolo di paladino nazionale della legalità dell’imputato eccellente. «Un ruolo che egli avrebbe potuto assicurarsi solo se in sede locale fosse stato in grado di far leva su un suo personale potere di influenza, di condizionamento o di ricatto nelle dinamiche del territorio, ma che, proiettato in sede nazionale (e non solo), non poteva che trovare origine nella corrispondenza strategica tra il suo operato ed altri interessi e obiettivi». Che però, nel processo sul primo troncone d’inchiesta su Montante&C., restano sconosciuti.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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