L'intervista
Cantone a “La Sicilia”: «Clientele, opacità e affari: il nuovo abisso di Cosa Nostra»
Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Anticorruzione, l’iconografia sulla Sicilia va mutando: da patria della mafia stile coppola e lupara a epicentro della corruzione, in un magma fra boss, politici e colletti bianchi. Dal suo punto d’osservazione la descrizione le sembra veritiera?
«La ritengo un’iconografia abbastanza corretta, almeno questo è quanto vedo da osservatore esterno. Che la mafia sia arretrata mi pare innegabile. Di conseguenza quello stesso tessuto collusivo, che aveva fatto da sostrato alla vecchia mafia tradizionale, oggi ha cambiato ruolo, proprio per effetto del meccanismo di inabissamento che si è prodotto. Se è meno visibile, non per questo il sistema è nel suo insieme meno pericoloso».
In un’intercettazione, agli atti di una recente inchiesta, un politico siciliano confessa: «La politica, senza posti di lavoro, non ha dove andare». In pratica è il “manifesto” di un sistema. Come si fa a spezzare l’intimo legame fra clientelismo e malaffare?
«Mi rifaccio a quanto disse a suo tempo, con straordinaria lungimiranza, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa della mafia: la politica clientelare finirà quando si esaurirà la convinzione che i diritti sono favori gentilmente elargiti. Purtroppo molte persone, soprattutto al Sud – e lo dico con grande dispiacere, da meridionale – più che da cittadini ragionano da sudditi: ritengono che alcuni benefici, come il lavoro, si possano ottenere soltanto assoggettandosi al potente di turno. Occorre un cambiamento culturale, ma credo che questa prospettiva si stia lentamente affermando».
Alla vigilia delle Europee, ma nell’Isola prima ci sono le Amministrative, si ripropone il tema del controllo sulle liste, per blindarle rispetto ai cosiddetti “impresentabili”. Ritiene che gli attuali strumenti, fra leggi e codici etici, siano sufficienti? Non ci vorrebbe un autentico cambio di passo dei partiti nella selezione di candidati e classe dirigente?
«Sono assolutamente d’accordo. Ben vengano tutte le liste di impresentabili di questo mondo ma la politica deve avere il coraggio di decidere e autoregolamentarsi, senza farsi imporre regole dall’esterno. Anche perché nessun codice etico sarà mai in grado di individuare situazioni di opacità borderline. Faccio un esempio: c’è bisogno di mettere per iscritto che un politico, anche se non imputato o condannato, non debba frequentare abitualmente pregiudicati, magari per associazione mafiosa?».
Una recente indagine siciliana ha portato alla luce interessi opachi della massoneria. Poco prima l’Ars aveva votato una legge regionale in cui si obbligano gli eletti a dichiarare l’appartenenza alle logge, contro la quale sono stati presentati ricorsi invocando la tutela della privacy. Pensa che ci sia il rischio di “invasione di campo” della massoneria nelle istituzioni? Ed è giusto che un massone eletto debba dichiarare la propria appartenenza?
«Premetto che non ritengo che la massoneria vada criminalizzata a prescindere né che chi sia massone non possa fare politica. Un politico, però, non può invocare la riservatezza su certi aspetti: chi amministra la cosa pubblica e rappresenta la volontà popolare è tenuto a un livello di trasparenza maggiore rispetto a un cittadino comune. E dal momento che le logge prevedono regole di particolare segretezza, credo sia giusto dichiararne l’appartenenza».
Di recente la commissione Antimafia, nel suo codice di autoregolamentazione, ha escluso i reati legati alla discriminazione razziale, sessuale e religiosa dalle cause di incandidabilità. In sintesi: no a ladri e corrotti, sì a fascisti e razzisti. La ritiene una scelta corretta?
«È una scelta che attiene alla politica. Personalmente non credo che i reati d’opinione debbano essere messi sullo stesso piano dei reati di mafia. Il punto è semmai un altro: i partiti che si ispirano a regole democratiche, i principi non discriminatori dovrebbero averli nel dna. Come dicevo prima, è la dimostrazione che non tutto può essere risolto coi codici di autoregolamentazione calati dall’alto».
Torniamo alla Sicilia. Il caso-simbolo della corruzione è quello finito nel processo sul “sistema Montante”. Che idea s’è fatto di questa vicenda? Non ritiene che, oltre che politici, istituzioni e imprenditori, anche i magistrati debbano fare autocritica?
«Non ho elementi di conoscenza tali da potermi esprimere. Di certo c’è un problema legato all’utilizzo del “brand” antimafia, perché purtroppo non è la prima volta che si scopre, proprio in Sicilia, che alcuni paladini di questa battaglia erano in realtà tutt’altro. E questo è oggettivamente devastante negli effetti che può produrre, perché rischia di sporcare un patrimonio comune che invece deve essere inviolabile e scevro di ombre. Quindi penso sia giusto che chi ha messo l’antimafia al centro del proprio impegno faccia autocritica: magistratura, politica, ma anche il mondo associativo. È nell’interesse dell’antimafia stessa».
In un’intervista del febbraio 2015, quando era appena uscita la notizia dell’indagine per mafia a carico di Montante, ai giornalisti che le chiedevano sull’opportunità che Unioncamere Sicilia gestisse la presenza della Regione all’Expo lei rispose che l’Anac «c’entra come i cavoli a merenda». Alla luce anche del fatto che anche l’affare Expo è finito nell’inchiesta di Caltanissetta, ci chiarisce meglio il senso delle sue parole?
«Intendevo dire che l’Anac non aveva competenza sulla scelta della Regione. Era una decisione che non poteva sindacare perché non rientrava nell’ambito dei suoi poteri di vigilanza, relativi esclusivamente agli appalti per l’Expo. E quindi confermerei quella frase anche oggi».
Anche in Sicilia lei è molto apprezzato, ha ricevuto pure un premio della Regione. Ma, quando ha chiesto più trasparenza, l’Ars ha alzato un muro anti-Anac sullo Stretto. Solo una rivolta della casta oppure una risposta contro la legge?
«Non voglio fare dietrologie e polemiche. L’Ars ha posto un problema e noi abbiamo sottoposto la questione al Consiglio di Stato, che ha stabilito che anche le Regioni a statuto speciale e le Province autonome devono rispettare le regole di trasparenza. Quindi alla fine la vicenda è servita a fare chiarezza sulla normativa e l’Ars dovrà adeguarsi».
Più volte s’è soffermato sull’alto tasso di corruzione nel settore dei rifiuti, soprattutto nell’Isola. Ha notato un cambiamento negli ultimi mesi? O la “munnizza” siciliana è destinata alla raccolta differenziata della corruzione?
«È un tema troppo complesso per rispondere sinteticamente. Di certo, le criticità rimangono inalterate e soprattutto sul tema degli impianti, che rappresenta il vero cuore del problema in Sicilia, non mi pare ci si sia avviati verso una soluzione. Va però anche riconosciuto, come mostra il caso di Catania, dove il Comune ha chiesto la collaborazione dell’Anac, che è difficile riuscire a fare una gara in questo settore perché evidentemente non c’è concorrenza vera».
L’altro nervo scoperto, nell’Isola più che altrove, è la sanità. Anche in questo comparto, su appalti e nomine, l’Anticorruzione ha più volte fatto sentire la sua voce. L’assessorato regionale ha adottato un protocollo con Anac e Agenas. Ma è sufficiente avere delle regole efficaci per tenere fuori dalle corsie appetiti degli affaristi e clientelismo dei politici?
«Il Codice etico non rappresenta una panacea, ma è un primo passo. Quando le regole mancano del tutto, è facile giustificare anche un operato più che discutibile. Per questo è importante fornire un quadro di riferimento all’interno del quale muoversi. L’accordo ad esempio indica una serie di accorgimenti concreti per prevenire non solo fenomeni corruzione ma anche di cattiva gestione».
In un recente colloquio col “Foglio” ha espresso perplessità sul cosiddetto “spazzacorrotti”. Al di là del nome, non la convince la non punibilità di chi non denuncia. Per quale ragione?
«Sono assolutamente favorevole all’impianto del provvedimento, sia per l’inasprimento delle pene che per l’interdizione prevista per i condannati per reati contro la pubblica amministrazione. Ho solo espresso perplessità su alcuni aspetti. Nello specifico, il rischio che la non punibilità possa prestarsi a “trappole” predeterminate. Ovvero: offro una mazzetta per incastrare qualcuno e poi mi pento, contando sul fatto di non poter essere perseguito».
C’è pure una norma dell’ultimo testo dello “sblocca-cantieri” che pare non piacerle: la previsione di ritenere ordinaria una gara, fra 40mila e 200mila euro, con la presentazione di tre preventivi. C’è il rischio di un passo indietro rispetto al lavoro di Anac sul Codice degli appalti?
«Il problema non è rispetto al lavoro dell’Anac, ma il rischio di corruzione insito nella norma. Attualmente, se non si vuol fare una gara pubblica, di preventivi ne servono dieci fino a 150mila euro e quindici al di sopra di quella cifra. Riducendone in maniera così considerevole il numero, il pericolo è duplice: aumenta la possibilità che vengano chiesti preventivi di comodo e soprattutto si rischia di spendere molto più del necessario. Quando deve fare un acquisto ingente, lei compra nel primo negozio in cui entra?»
Ha anche auspicato il ritorno del finanziamento pubblico dei partiti. All’epoca del populismo imperante non le sembra una posizione anacronistica?
«Non credo che si debba abdicare alle proprie convinzioni solo perché non vanno di moda. Fermo restando che si è prestata ad abusi e vergognose malversazioni, resto convinto che la legge sul finanziamento ai partiti, che peraltro aveva un suo fondamento costituzionale, fosse utile e la ripristinerei, con controlli, però, molto rigidi. Non dimentichiamo che già nell’antica Atene era prevista una retribuzione per i membri dell’assemblea cittadina, affinché anche i meno abbienti potessero partecipare alla vita pubblica. A meno che non si ritenga che solo i ricchi abbiano diritto di fare politica».
Fra qualche mese, dopo aver smentito più volte le voci su dimissioni anticipate, scade il suo mandato all’Anac. Qual è il suo bilancio provvisorio? E cosa farà Cantone da grande?
«Ho sempre detto che sarei tornato a fare il magistrato e così sarà. Ho presentato domanda al Csm per tre Procure dove penso di poter portare il mio contributo. Se verrà accolta, potrei lasciare l’incarico con qualche mese di anticipo. In caso contrario, rientrerò in magistratura ad aprile 2020, a fine mandato».
Twitter: @MarioBarresi
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