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Assoluzione Lombardo, le preghiere della madre e l’sms arrivato in chiesa

Il racconto della giornata più lunga dell'ex governatore vista da un'altra angolatura. Non dal tribunale, ma dai luoghi più intimi e nascosti

Di Mario Barresi |

L’aveva già deciso la sera prima. In quello che diventerà il giorno della sua rinascita, Raffaele Lombardo va a onorare un morto. «Un amico di una vita, non posso non salutarlo per l’ultima volta». Come sempre in tribunale, in mattinata, all’ultima udienza del suo processo, l’ex governatore sceglie di non essere presente alla lettura della sentenza.

Quando i giudici si ritirano in camera di consiglio, l’imputato per mafia va a trovare la madre, Maria, ultranovantenne. Che, «pur lucidissima», negli ultimi anni è stata protetta con una dolce bugia: sa che il calvario giudiziario è finito. Lombardo le fa visita assieme al figlio Toti. Chi ti ha messo al mondo ti capisce da uno sguardo. E lei è subito sulla difensiva: «Perché siete qui?». Spiegazione vaga: «Tuo nipote non ti vedeva da un po’ e gli ho fatto compagnia. Tutto qui…». Ma a tradire la tensione di una giornata campale è una richiesta insolita all’anziana, fervente cattolica. «Mamma, hai pregato? Mi raccomando, oggi preghiamo di più». E lei, insospettita: «Perché, c’è un problema? Mi devo preoccupare? Scusa, se devo pregare dimmi almeno il motivo… Così prego per un obiettivo!». La risposta è un singulto trattenuto a stento: «No, mammina, nessun obiettivo. Tu, comunque, prega. Prega e basta…».

Poi, dopo un pranzo senza toccare cibo a casa, l’appuntamento con l’amico che non c’è più. Il funerale di Giuseppe L’Episcopo, morto mercoledì a 75 anni, un mito dell’equitazione siciliana. Con Lombardo si conobbero negli Anni 80 al maneggio della Plaia, dove l’allora giovane consigliere comunale democristiano, un “paesano” di Grammichele innamorato dei cavalli, cavalcava all’inizio della sua cavalcata politica. E da lì in poi fu un sodalizio inscindibile: L’Episcopo, oltre che una persona di fiducia, divenne un uomo-ombra e un factotum; restando soprattutto un amico. Da ospitare nella tenuta di Ramacca, nei momenti di difficoltà economica; da far curare – lui, ex padrone dell'intera sanità siciliana – negli ultimi mesi di malattia, nel pellegrinaggio di corsia in corsia. «E adesso – rivela Lombardo agli amici più stretti – se n’è andato. È come se con la sua morte mi avesse voluto dare un segnale: “Non devi più occuparti di me, tolgo il disturbo. Tu, adesso, hai cose più importanti a cui pensare…”». L’imputato in attesa di giudizio entra nella chiesa di Santa Maria di Gesù, a Catania, quando le esequie sono appena cominciate. L’inseparabile figlio Toti lo aspetta già da un po’, parlando fitto e nervoso al cellulare. 

Sono le 16,32. Il cronista, appostato all’ingresso, li segue. «Minchia, Lombardo c’è!», sussurra d’istinto un distinto signore seduto nelle ultime file. C’è un banco libero a metà della chiesa. Padre e figlio trovano posto; noi ci sistemiamo poco dietro, in una sedia piazzata sulla sinistra guardando l’altare, con l'occhio fisso sullo smartphone. Alle 16,37 l’AdnKronos batte la notizia: «Assolto in appello». Due minuti dopo l’Ansa dettaglia che il verdetto della Corte d’appello di Catania riguarda entrambe le accuse: concorso esterno alla mafia e voto di scambio. Lui è lì davanti a noi. Mano giunte dietro la schiena, sguardo perso verso la bara dell’amico. Ma può essere che non ne sappia nulla? L’impeto sarebbe di fare due metri e dirglielo. Ma prevale il pudore. Gli inviamo un messaggio: «Assolto!!!». Ma la “spunta” singola di WhatsApp certifica che Lombardo ha il cellulare spento: non ha ricevuto nessuna comunicazione, nemmeno quella dei suoi avvocati. Inoltriamo lo stesso sms al figlio, seduto accanto a lui. Toti, invece, il telefonino ce l’ha acceso. E guarda il display dopo qualche secondo. Sgrana gli occhi, poi lo mostra al padre. L’ex uomo più potente di Sicilia, barba lunga («ma domani la taglio») e mascherina bianca, ha scoperti soltanto gli occhi di ghiaccio. Si china a leggere il messaggio, viene preso – per non più di cinque secondi di cronometro – da un moto di commozione. Un qualcosa che somiglia a una gioia. Soffocata. E poi Lombardo torna Lombardo. Chiunque avrebbe avuto l’irrefrenabile istinto di uscire, di fare un nonsoché di catartico. Di liberatorio. Urlare, esultare, piangere. Comunque uscire. Ma lui no. Resta lì, impassibile. Ad ascoltare tutta la funzione religiosa. Poi arriva un momento che confessiamo di non sapere raccontare come meriterebbe. Quando il giovane parroco di Santa Maria di Gesù, in ossequio alla liturgia in tempo di pandemia, chiede ai presenti di scambiarsi un segno di pace. «Non si può fare con la mano, fatelo con uno sguardo». Gli occhi dei Lombardo, padre e figlio, dello stesso azzurro siderale, s'incrociano. Pochi secondi, con un’eternità dentro. Si dicono tutto quello che forse non si sono detti in questi anni. Nella scena madre di un film muto. Al cronista ficcanaso arriva solo l’emozione, reciproca e potente. Il resto sono fatti loro.

Finisce la messa. Ma Lombardo non va via. Si mette in coda, assieme a tutti gli altri, per le condoglianze. Ed esce dietro il feretro dell’amico, avvolto nel paltò blu. Fuori la notizia dell’assoluzione è arrivata. Lui, quasi imbarazzato, risponde con un ghigno goffo a chi gli si avvicina per congratularsi. C’è Antonio Scavone, delfino politico e amico, anche lui al funerale dall’inizio. Fra i due un cenno d’intesa. «Ci vediamo dopo». L’assessore regionale non riesce a trattenere la commozione. Poi riflette a voce alta: «Non so se prevale la gioia per la sentenza o la rabbia per quello che è successo in questi dieci anni». Dal cellulare di Scavone sbirciamo la chat della giunta regionale. Lui ha postato da un po’ la notizia dell’assoluzione, nessuno ha ancora risposto. Poi spunta il nome del governatore: scrive qualcosa, ma poi ci ripensa. «Nello Musumeci ha cancellato il messaggio». Lombardo torna dalla madre, che abita nella palazzina accanto alla chiesa. Sale e riscende in un quarto d’ora. Sembra emozionato, ma è soprattutto risoluto: «Niente interviste, prima vado dai miei avvocati». E scompare, mentre è già buio pesto, dentro un’utilitaria color rosso fuoco.

Lo ritroviamo in tarda serata, dopo le prime stringate dichiarazioni. È con la sua famiglia. «Cos’è la prima cosa che ho pensato dopo aver letto il suo messaggino? Ho avuto subito un senso forte di liberazione. E poi subito m’è tornata la stessa domanda: perché questi dodici anni? Un perché senza punto interrogativo». Né confuso, né felice. «Io – ci confessa – ho un quadro chiaro: la felicità l’ho provata il 17 dicembre, per l’assoluzione di mio figlio, imputato con me in un altro processo». Toti, l’enfant prodige della politica regionale, catapultato all’Ars dopo il tramonto dell'impero paterno, adesso trasferito a Milano, fra master ed esperienze in prestigiosi studi legali, «ma partito con un carico di arance, olio e formaggi come ogni emigrato che si rispetti». C’è anche la moglie dell’ex governatore, Saveria, a cui l’assolto eccellente ha fatto un solenne giuramento: «Non farò mai più politica in prima linea». Come il tossicodipendente che dice: smetto quando voglio. E c’è l’altro figlio, Peppe, assieme a un vispo biondino di quasi tre anni. Che si chiama Raffaele Lombardo. «Ecco, se riuscissi a piangere di gioia – confessa l’ex governatore – lo farei soltanto per lui. Porta il mio nome e cognome: sarebbe stata dura crescere con il nonno ingiustamente condannato per mafia…».

Il congedo, garbato, è un sospiro. Lunghissimo. Twitter: @MarioBarresiCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA