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Antoci fu vittima di una messa in scena, così l’Antimafia ha “smontato” l’attentato

Di Ruggero Farkas e Alfredo Pecoraro |

PALERMO – Per l’Antimafia siciliana l’attentato fallito contro Giuseppe Antoci, la notte tra il 17 e il 18 maggio di tre anni fa, fu più una messa in scena – cioè una «simulazione» di cui la vittima fu «strumento inconsapevole» – che un agguato mafioso. La commissione non scarta neppure l’atto dimostrativo orchestrato per mettere paura all’allora presidente del Parco dei Nebrodi che si batteva contro la mafia dei pascoli: ma comunque tra le tre ipotesi, che per l’Antimafia rimangono valide, la meno plausibile è che si sia trattato di un attacco di Cosa nostra. In tutti e tre le ipotesi, comunque, Antoci è per i commissari una vittima.

A questa conclusione sono giunti i deputati della commissione, guidata dal presidente Claudio Fava, dopo cinque mesi di audizioni, e dopo aver ascoltato investigatori, amministratori, magistrati, giornalisti e acquisito le carte dell’inchiesta della Procura di Messina che chiese e ottenne dal gip l’archiviazione per i presunti autori dell’attentato. Fava, dopo l’approvazione della relazione da parte di 10 deputati su 13, gli altri 3 sono autosospesi perché indagati in inchieste, ha detto: «L’ipotesi più plausibile è quella della simulazione», chiedendo la riapertura delle indagini per «un debito di verità che va onorato. Qualunque sia la verità».

Antoci stava andando a casa a Santo Stefano di Camastra (Messina), dopo un incontro a Cesarò, quando la sua auto blindata (aveva una scorta di terzo livello) venne bloccata lungo la strada da alcuni massi e vennero sparati alcuni colpi di fucile contro la vettura da persone (non è chiaro quante fossero) che poi riuscirono a scappare. L’ex presidente del Parco dei Nebrodi, che è stato responsabile legalità del Pd e ora è tornato a fare il bancario, aveva attuato un protocollo di legalità nel Parco dei Nebrodi poi allargato a tutta la Sicilia e quindi diventato legge nazionale.

L’Antimafia «più che esprimere conclusioni certe e definitive» dà atto «delle molte domande rimaste senza risposta, delle contraddizioni emerse e non risolte, delle testimonianze divergenti, delle criticità investigative registrate». Dopo le audizioni – avendo analizzato le testimonianze, letto gli atti dei pm e il decreto di archiviazione dell’inchiesta che riguardava all’inizio 14 indagati – la Commissione critica le indagini, le procedure operative della scorta subito dopo l’agguato, mette in dubbio testimonianze di esponenti delle forze dell’ordine, ritenendo non comprensibili alcuni comportamenti come quelli del vicequestore aggiunto Daniele Manganaro che sarebbe arrivato sul luogo dell’attentato poco dopo l’esplosione dei colpi di fucile, sventandolo.

Viene citata anche la testimonianza del sindaco di Cesarò, Salvatore Calì, che ricorda che dopo una sua prima dichiarazione sull’agguato secondo cui si trattava di «delinquenza locale» ricevette le telefonate di Antoci e dell’ex senatore Beppe Lumia che lo spinsero a fare una smentita per affermare che si era trattato di un attentato mafioso.

Ma Antoci non ci sta: «Rimango basito di come una Commissione, che solo dopo tre anni si occupa di quanto mi è accaduto, possa arrivare a sminuire il lavoro certosino e meticoloso che per ben due anni la Dda di Messina e le forze dell’ordine hanno portato avanti senza sosta, ricostruendo gli accadimenti con tecniche avanzatissime della polizia scientifica di Roma e che oggi rappresentano per l’Italia un fiore all’occhiello». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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