È stata annunciata pochi giorni una rivoluzione nelle ferrovie nel Sud. Il Ministro Giovannini porterà alle commissioni delle Camere il nuovo progetto di RFI sull’Alta velocità Salerno-Reggio Calabria: “quella vera” è stata definita su Sole 24Ore. Abbiamo immaginato in un primo momento, la cancellazione dai nuovi programmi governativi dell’Alta velocità di rete, con limite a 200 km/h, già inserita nel Piano di Rilancio nel 2020 e nel PNRR approvato dal Parlamento il 12 gennaio scorso.
A chi si è speso per una rete ferroviaria al Sud dell’asse Napoli-Bari almeno uguale a quella del Centro-Nord, con velocità fino a 350 km/h (su cui esclusivamente i governi italiani e RFI hanno finora investito oltre 100 miliardi di euro contro zero euro a Sud di Napoli), per un attimo è sembrato il raggiungimento di un traguardo dovuto. Finalmente sarebbe rimossa una condizione ineliminabile per l’integrazione delle regioni meridionali – con le loro risorse economiche, culturali e umane territoriali non solo non valorizzate, ma persino dissipate respingendo altrove i più qualificati ragazzi e ragazze – nel grande network europeo dei grandi corridoi intermodali e logistici nati per raggiungere a Sud un Mediterraneo quanto mai strategico.
Ci chiedevamo del resto perché non fosse stato ancora fatto. Quali ragioni, finanziarie, tecniche, culturali potessero giustificare la netta separazione dell’Italia in due diversi territori della cittadinanza, se non politiche nazionali oggettivamente anti meridionali e politiche regionali e locali incapaci di pretendere? Perché questa diversa “cittadinanza” su un servizio e un diritto come la mobilità non solo essenziale all’economia, ma anche scommessa e prova decisiva della cultura individuale e collettiva degli spazi pubblici, della legalità, della trasparenza ed efficienza delle pubbliche amministrazioni, della dotazione di competenze professionali e imprenditoriali?
Invece No! Con sorpresa scopriamo che il Progetto RFI sceglie il paradosso di abbandonare il facile, piano e lineare percorso tirrenico che separa Salerno dallo Stretto, indirizzandolo verso la Calabria interna, con una deviazione da Praia a Tarsia per poi passare per Cosenza e rientrare a Lamezia sulla costa tirrenica, con 180 km di gallerie su poco più di 400 km di linea.
Eppure ben diverse e chiare proposte sono venute dai migliori tecnici e dalle istituzioni davvero interessate al rispetto delle priorità di sviluppo economico, occupazione giovanile e riconversione green nel Sud, priorità per cui l’Unione ha dato più soldi all’Italia che ad altri paesi (Svimez, Anci, gli ordinari di ingegneria dei trasporti e costruzioni di tutte le università della Sicilia e della Calabria, Fondazione PER, Gruppo 20 dell’Università Roma2, e molti gruppi di studiosi).
Con circa la metà della spesa indicata in 20 miliardi nel progetto Rfi, si può arrivare da Roma allo Stretto in tre ore e, col collegamento stabile (ponte o tunnel), a Catania in 4 ore e a Palermo in 5. Non farlo significa ora chiaramente volere frenare il Sud remando contro. Come quando negli anni Sessanta si decise di costruire l’autostrada Salerno-Reggio Calabria in maniera diversa dal resto delle autostrade italiane, dividendo di fatto l’Italia in due sistemi di trasporto e mobilità.
Il Ministero dei lavori pubblici e l’Anas scelsero allora anziché il più breve percorso tirrenico, quello interno e montano che passasse per Cosenza e lambisse la Basilicata. Allora, i cosiddetti meridionalisti del momento, nazionali e locali, fecero persino appello al passato più remoto. Quel percorso era stato tracciato da Annibale, per la sua esperienza di “costruttore di ferrovie e stratega di strade” (sic!), per raggiungere dalla costa calabrese la Piana di Sibari! Dopo l’autostrada di Annibale (con le conseguenze che abbiamo conosciuto), avremo ora l’Alta velocità ferroviaria di Annibale?