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A Mazara il racconto dei pescatori siciliani rapiti da Haftar: «Volevano lo scambio coi detenuti libici»

Di Francesco Terracina |

MAZARA DEL VALLO – Sono tornati. Nelle orecchie il frastuono dei motori, in un viaggio che da Bengasi a Mazara del Vallo è durato 57 ore, e l’eco delle parole pronunciate per 108 giorni dai lori carcerieri, nessuna delle quali era di conforto: grida e silenzi, incomprensibili allo stesso modo. I diciotto pescatori sequestrati l’1 settembre a 50 miglia da Tripoli, sono stati accolti nella loro città da una giornata inclemente, con pioggia e nuvole basse; ma hanno incassato la gioia straripante dei loro parenti, esplosa quando alle 10 l’Antartide e il Medinea, annunciati dalle sirene dei pescherecci, hanno fatto ingresso al Porto Nuovo. Dopo i controlli medici (tutti negativi al Covid), sulle auto private hanno lasciato il porto, non prima di essere attorniati da giornalisti incuranti delle misure anti assembramento.

Poi sono cominciati i racconti dei marinai, che convergono su alcuni punti: la violenza psicologica subita durante la prigionia, l’angoscia di vivere in celle buie e sporche, l’idea che l’eventuale rilascio (qualcuno non ci credeva più) dipendesse da questioni più grandi di loro. Nelle parole di Gira Indra Gunawan, marittimo indonesiano dell’Antartide, il cui contratto annuale è scaduto mentre era in carcere, c’è la misura della paura vissuta: un mese dopo il sequestro i carcierieri gli hanno detto che il suo destino e quello dei suoi compagni era legato al buon esito dello scambio con alcuni libici detenuti in Italia (le 4 giovani promesse del calcio, come li ritengono i libici, condannati a Catania per essere gli scafisti di un barcone naufragato al largo delle coste siciliane).

«Ci è bastato per capire che forse ci trovavamo nella mani di terroristi», dice Gunawan, ospitato in un albergo – riaperto per l’occasione – insieme a un connazionale, in attesa di tornare nel suo paese. E uno dei marinai, Giovanni Bonomo, prima di essere ascoltato dai carabinieri, ricorda i concitati momenti del sequestro: «nell’area a 50 miglia dalle coste libiche c’erano 12 pescherecci. L’unica motovedetta libica è riuscita a bloccarne quattro avvicinandosi e sparando in aria. Due barche sono riuscite a scappare mentre noi siamo stati costretti a dirigerci verso Bengasi. Nell’immediato abbiamo chiesto aiuto alle motovedette italiane, ma ci hanno risposto che erano troppo lontane dall’area».

Il comandante della Medinea, Pietro Marrone, con la sobrietà mutuata dal suo ruolo, sostanzialmente conferma che le paure di Gunawan erano anche le sue. Marrone e i comandanti degli altri tre pescherecci coinvolti nel sequestro (due sono riusciti a darsi alla fuga), sono stati ascoltati dal Ros nella caserma dei carabinieri di Mazara, nell’ambito dell’indagine aperta dalla procura di Roma. Il comandante ringrazia il nostro governo e soprattutto sua mamma, Rosetta Ingargiola, 74 anni, una indomabile lottatrice che ha protestato davanti a Montecitorio per 40 giorni. «Ho sempre contato su di lei. Ha perso il marito, poi un figlio in un naufragio. Non poteva perdere anche me». Rifocillato con un piatto di pasta, si dice pronto a riprendere il mare quanto prima.

Il ritorno al lavoro è il sentimento di tutti, anche dell’armatore Marco Marrone, che ha accompagnato l’ultimo tratto del viaggio dei pescatori con un lungo collegamento radio durato tutta la notte: «Abbiamo pianto e riso. Li conosco, sono grandi uomini, già pronti a salpare». L’armatore ha ricevuto una telefonata di Silvio Berlusconi, che l’ha sorpreso mentre era a pranzo in un ristorante. L’ex premier l’ha tirato su e poi gli ha riferito la sua versione delle cose: «Non si può dire ma è stato il signor Putin con le sue telefonate ad Haftar a far liberare i pescatori. Questa è la verità». Emozionato per l’inattesa telefonata, Marrone ha colto il lato leggero del colloquio, inorgogliendosi per aver parlato con quello che per lui resta il presidente del Milan, la sua squadra del cuore, che oggi ha vinto. 

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