Catania – Qualcuno l’ha definita Odissea, ma per chi è costretto ancora a vivere rinchiuso in una cabina, nella pancia del gigante di ferro, la vita sulla nave da crociera “Costa Victoria” è ormai diventata un incubo. Attraccata a Civitavecchia e “alleggerita” di alcune centinaia di turisti e di una cinquantina di dipendenti (tutti, compresi i 300 passeggeri di ieri, selezionati non si sa in base a quale preciso criterio), con due casi appena conclamati di Coronavirus a bordo, la Victoria è la prigione neanche tanto dorata di un numero imprecisato di persone. Fra queste una giovane siciliana che su questa nave lavora da tempo: chiede l’anonimato (per questo la chiameremo “Fiorenza”) e ci racconta nei dettagli come sta vivendo l’emergenza. «Quando ci siamo imbarcati – riferisce – ci siamo diretti verso l’India. Tutto procedeva come sempre, fin quando non abbiamo saputo della pandemia. Abbiamo preso a informarci freneticamente attraverso Rai international, temendo anche per i nostri cari in Italia. Nel frattempo il mondo esterno cominciava a guardarci con sospetto: molti italiani sono stati fatti sbarcare a Mombay, ma tanti passeggeri stranieri sono rimasti a bordo, mentre in altri porti non ci hanno proprio voluti. E’ stata dura».
«Il 7 marzo – prosegue – abbiamo fatto tappa a Dubai ma invece di sbarcare passeggeri ne abbiamo accolti altri: mi dicono che quella fosse zona rossa. Come è stato possibile? E come è stato possibile fare tappa a Salalah, in Oman, cinque giorni dopo, e mandare tutti in escursione?». Fiorenza è certa che l’emergenza non sia stata affrontata adeguatamente: «Soltanto il 16 marzo teatro, discoteca e baby club venivano chiusi poiché luoghi di aggregazione: le attività venivano messe in stand by e gli spettacoli in teatro si registravano senza pubblico e poi mandati in tv. Poi il tran tran è ripreso e con questo i contatti fra passeggeri e dipendenti, per quanto in un’atmosfera decisamente cupa. Per questo siamo andati a parlare con la nostra direttrice di crociera, per chiederle se potevamo cessare di lavorare in un luogo ipoteticamente contaminato e comunque a rischio: ci ha risposto che non poteva non farci lavorare perché non aveva ricevuto direttive dalla società e di testa sua non prendeva iniziative. Una contraddizione assurda, perché a noi erano stati chiusi luoghi di incontro come il nostro bar e la palestra: nei giorni di navigazione, non sapevamo come far passare le ore. In compenso dovevamo andare a lavoro! E quando finivamo di lavorare non si sapeva dove trovare anche un solo frutto, perché la nostra mensa veniva lasciata aperta soltanto in determinati orari».
Non è finita qui. «No – continua – perché quando abbiano attraversato il canale di Suez hanno autorizzato alcuni egiziani a salire a bordo per vendere souvenir nel bar che era stato chiuso perché luogo di aggregazione. Come è stato possibile? Mi hanno impedito di entrare e prendere un caffè perché c’era questa gente che stava montando gli stand».
Nessun controllo medico?
«Pochi giorni dopo ci hanno misurato la temperatura con un macchinario elettronico: la mia oscillava fra i 31 e i 34 gradi. Ero in ipotermia? O l’apparecchio non funzionava? Opto per la seconda soluzione. Nel frattempo nessuno sapeva darci notizie certe e siamo stati invitati a non fare troppe domande. E lo stesso è accaduto dopo che una passeggera è stata sbarcata a Creta perché positiva: ci è stato detto di rimanere chiusi in cabina, era il 23 marzo, e di aspettare nuove disposizioni. Il 27 sarei potuta scendere come gli altri a Civitavechia, ma non l’ho fatto: il virus è asintomatico e non voglio correre il rischio di infettare i miei cari sol perché ho firmato un’autocertificazione. L’azienda mi deve garantire la quarantena in una struttura sicura».
Gliela garantisce in cabina, verrebbe da pensare.
«Ma non in una cabina passeggeri. E’ un bunker senza oblò che condivido con una collega, ormai diventata come una sorella. Usciamo soltanto per recarci in zona passeggeri per la misurazione della temperatura. Le mie giornate le passo chiacchierando con la mia compagna e ci stringiamo a vicenda per non perdere l’energia. Ogni tanto si piange e si ride. Si ascolta musica. Saliamo e scendiamo dal letto ma chiedendo puntualmente scusa perché ci scontriamo. E aspettiamo il cibo che ci viene portato dai filippini: scattiamo fino alla porta affinché non venga messo sul pavimento, perché è lì che lo lasciano. A terra nei vassoi».
Si mangia bene, almeno? E le derrate possono durare ancora?
«Il cibo non è un granché. In un unico piatto un po’ di riso al vapore, senza olio né sale, con un po’ di carne o pesce, e verdura cotta. Poi ci danno anche il dolce, ma tutto col contagocce. Abbiamo parlato con una delle cuoche e in calabrese ci ha risposto che dovevamo ringraziare per quello che ci arriva: le scorte alimentari stanno finendo e loro devono cucinare per equipaggio e passeggeri».
Come pensa finirà?
«Non lo so e non riesco a immaginarlo, dopo che si sono registrati i due nuovi casi nell’equipaggio. Di una cosa sono certa: lo Stato non ci sta aiutando. Porte sbattute in faccia e noi costretti a vagare da un porto all’altro. Siamo italiani, ma non sembra che se ne siano accorti».