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Sicilia, in corsia “uno non vale uno”: quel filo tra mortalità e specialisti

Di Mario Barresi |

CATANIA – Fra i contagiati che entrano in terapia intensiva quanti alla fine ne escono vivi?

Quando la pandemia sarà diventata un brutto ricordo sapremo tutto ciò (e anche molto di più), in un profluvio di trattati medici. Ma oggi dobbiamo accontentarci di poco. Secondo uno studio dell’Università di Washington, la mortalità di pazienti Covid è il doppio (40%) rispetto di quelli ricoverati in terapia intensiva per gravi influenze. L’Università di New York si limita a tracciare una tendenza sulla mortalità degli ospedalizzati (quindi compresi i reparti ordinari), che dalla prima alla seconda fase della pandemia sarebbe scesa dal 25,6% al 7,6%.

In Italia il Cts custodisce nel suo scrigno segreto informazioni che potrebbero avere non soltanto un valore scientifico a futura memoria, ma anche un’utilità pratica immediata, nel pieno della lotta alla seconda ondata del Covid. Lo stesso ragionamento, su scala ridotta, vale anche per la Sicilia.

Ci spieghiamo meglio: c’è più di un esperto ormai convinto che l’efficacia di cura sui casi più gravi di Covid non dipenda tanto dalla quantità di posti in terapia intensiva, ma dalla qualità della risposta. Il che significa: macchine, ma soprattutto persone. E anche quando si parla di risorse umane non è applicabile il principio dell’“uno vale uno”. Un medico, così come un infermiere, non è un’unità intercambiabile.

Il tema l’aveva lanciato Cristoforo Pomara, componente del Cts regionale, nell’<a href="https://www.lasicilia.it/

Quando la pandemia sarà diventata un brutto ricordo sapremo tutto ciò (e anche molto di più), in un profluvio di trattati medici. Ma oggi dobbiamo accontentarci di poco. Secondo uno studio dell’Università di Washington, la mortalità di pazienti Covid è il doppio (40%) rispetto di quelli ricoverati in terapia intensiva per gravi influenze. L’Università di New York si limita a tracciare una tendenza sulla mortalità degli ospedalizzati (quindi compresi i reparti ordinari), che dalla prima alla seconda fase della pandemia sarebbe scesa dal 25,6% al 7,6%.

In Italia il Cts custodisce nel suo scrigno segreto informazioni che potrebbero avere non soltanto un valore scientifico a futura memoria, ma anche un’utilità pratica immediata, nel pieno della lotta alla seconda ondata del Covid. Lo stesso ragionamento, su scala ridotta, vale anche per la Sicilia.

Ci spieghiamo meglio: c’è più di un esperto ormai convinto che l’efficacia di cura sui casi più gravi di Covid non dipenda tanto dalla quantità di posti in terapia intensiva, ma dalla qualità della risposta. Il che significa: macchine, ma soprattutto persone. E anche quando si parla di risorse umane non è applicabile il principio dell’“uno vale uno”. Un medico, così come un infermiere, non è un’unità intercambiabile.

Il tema l’aveva lanciato Cristoforo Pomara, componente del Cts regionale, nell’” style=”color: #ff0000;”>intervista pubblicata ieri su La Sicilia. sostenendo che «il sistema è in sofferenza e non perché manchino i posti, ma perché manca il giusto rapporto tra pazienti e medici in rapporto alla intensità e qualità di cure». Pomara definisce «un’intuizione che può essere corretta», l’ipotesi di legare l’exploit dei decessi (in Sicilia la scorsa settimana il record dall’inizio della pandemia: 325), stabile sopra i 40 al giorno, non tanto alla saturazione dei reparti Covid (ieri -15 ricoverati in intensiva, ma con 49 decessi), quanto a un altro fattore. Per il docente di Medicina legale a fronte di «posti più che triplicati», con la riconversione degli ospedali «si abbassa il livello di qualità di cura, perché il paziente viene trattato da sanitari formati diversamente per diverse situazioni che nel caso dei pazienti Covid sono tutti critici da trattare in alta intensità di cura ed elevatissima specializzazione».

E un altro autorevole membro del Cts siciliano approfondisce l’argomento. Per Antonio Giarratano, intervistato da ilfattoquotidiano.it, la disponibilità di posti Covid va «integrata, se vogliamo avere un dato reale della tenuta dei servizi sanitari regionali, con quella del personale dedicato e specializzato». Esplicitando: «Se ho in terapia intensiva 12 anestesisti rianimatori è un dato di sicurezza, se ho 5 anestesisti rianimatori e 7 contratti emergenza libero-professionali senza specializzazione o con altra specialità non ho la stessa capacità e qualità sanitaria».

Così Giarratano (che è presidente designato della Società italiana di anestesia, rianimazione e terapia intensiva), chiede a ministero della Salute e Iss di aggiungere ai 21 indicatori sul contagio nelle regioni altri due per «chiarire reali capacità in termini di strutture e di personale specializzato». Il docente palermitano, infatti, afferma che «se dichiari 2.000 posti devi dire quanti sono strutturali e con personale specializzato dedicato appunto e quanti sono aggiuntivi nelle sale operatorie o nelle Utic o nelle subintensive e quanti di questi hanno personale specializzato dedicato. Questo è necessario per non falsare, magari senza volerlo, la reale capacità del sistema sanitario». Giarratano chiede di considerare l’impiego «degli specializzandi del quarto e del quinto che hanno oltre 5.000 ore di attività» perché «significa avere in terapia intensiva figure con una competenza non paragonabile a quella di un medico neolaureato o con specializzazione diversa e significa meno morti».

Il sistema sanitario regionale, secondo i dati forniti da Repubblica Palermo, dall’inizio della pandemia ha assunto 3.874 professionisti: 971 medici, 1.442 infermieri e 1.462 fra operatori sociosanitari, tecnici di radiologia, biologi e altre figure. Ma in trincea mancano almeno 290 anestesisti e circa 3.500 infermieri specializzati. La Regione, sul tema, è già all’avanguardia grazie al protocollo con le facoltà di Medicina siciliane. Dai concorsi si stima di assumere da 40 a 60 anestesisti specializzati l’anno scorso e fra 100 e 140 specializzandi.

In attesa di più risorse qualificate, qualche indicazione potrebbe arrivare dai dati in tempo reale. L’Osservatorio epidemiologico regionale potrebbe fornire la cosiddetta «mortalità incidente» nelle terapie intensive siciliane, rilevando alcuni parametri-chiave: l’indice di gravità dei pazienti all’ingresso, la tipologia di ospedale, la dotazione di attrezzature, l’epoca di istituzione dei posti, le specialità presenti nell’ospedale, i tempi di risposta dei laboratori, il numero di personale medico e infermieristico per posto letto, l’incidenza dei contagi tra il personale. Una check-list per i vertici di Asp e ospedali, da incrociare con le Sdo (schede di dimissioni ospedaliere), già in possesso di uno specifico ufficio dell’assessorato alla Salute, dalle quali si potrebbero già da subito trarre molti dati. Il risultato finale? Non una “pagella” per premiare alcuni manager e metterne altri dietro la lavagna, ma un indicatore per capire quanto, come (e perché) si muore di Covid negli ospedali siciliani. E agire di conseguenza.

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