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L’esperto del Cts: «In Sicilia servirebbe ancora una cura “arancione” e il patentino per entrare»

Di Mario Barresi |

CATANIA – «Ma che vuole fare? Un pre-Cts con annessa ordinanza? Io il mio parere, però, glielo posso dare». Oggi Cristoforo Pomara, con tutto il Comitato tecnico-scientifico regionale, sarà a confronto con il governatore Nello Musumeci, l’assessore Ruggero Razza e i manager di Asp e ospedali. «In Sicilia è stato fatto l’impossibile, umani e sovrumani sforzi, ma le strutture – sostiene l’ordinario di Medicina legale a Catania, fra i più titolati al mondo – non sostituiscono le persone, come i ventilatori non fanno gli anestesisti e i posti in rianimazione. È un’emergenza sanitaria di proporzioni globali che ha investito i sistemi sanitari regionali. Il tema dunque non è quanti posti letto abbiamo a disposizione o quanti ne potremo avere».

E allora qual è il tema? Lei, di solito, è uno che va oltre i luoghi comuni…

«Partiamo dalla fotografia pre Covid. In Sicilia, come nel resto del Paese, esistono ospedali ad alta intensità di cura e di alta specializzazione, ospedali a media e bassa intensità di cura e di minore livello di specializzazione. Il personale medico è formato e specializzato nella stessa identica proporzionalità ad affrontare tali patologie e al bisogno a trasferire il paziente appunto in strutture più preparate ad affrontare le criticità. Se saturiamo tutti i posti in ordine crescente a tutti i livelli in tutti gli ospedali, si abbassa il livello di qualità di cura perché il paziente viene trattato da sanitari formati diversamente per diverse situazioni che nel caso dei pazienti Covid sono tutti critici da trattare in alta intensità di cura ed elevatissima specializzazione. Comprenderà che il sistema non era né è pronto per gestirli».

Guardando i dati, il numero di morti aumenta, e poi resta stabile, dopo una certa soglia di occupazione dei reparti. In Sicilia, ad esempio, dopo la quota di 220 ricoveri in terapia intensiva le vittime salgono a oltre 40 al giorno.

«È un’intuizione condivisibile, se i numeri sono consolidati. A questo dobbiamo aggiungere la fotografia attuale dei reparti. Posti più che triplicati ovunque, ma sempre con gli stessi sanitari e migliaia di pazienti Covid ricoverati. Non solo si abbassa il livello di cure, ma anche il rapporto tra numero di personale sanitario e numero di pazienti: il sistema è in sofferenza e non perché manchino i posti, ma perché manca il giusto rapporto tra pazienti e medici in rapporto alla intensità e qualità di cure. Non solo: aumentando il numero dei posti e dei pazienti Covid si sottrae personale per la cura delle altre patologie e il rapporto numerico diventa critico anche nell’ordinario. E aggiunga l’inevitabile dilagare di focolai tra il personale sanitario che abbassa ancora tale rapporto».

Sta dicendo che non basta aumentare i posti per sentirsi al sicuro.

«Questi dovrebbero essere i parametri guida, in un mondo ideale, per scelte di chiusura anche drastiche. Il sistema respirerà solo al diminuire dei contagi: questo è! È l’offerta di cura. Poi, me ne rendo conto, ci sono il malessere sociale e la crisi economica».

E qui subentra la politica. Che, nelle sue scelte, è condizionata da tanti fattori e da altrettante pressioni.

«La politica è chiamata a delle scelte difficilissime e perciò assistiamo ad atteggiamenti schizofrenici talora contraddittori del tipo “apriamo tutto, no chiudiamo tutto”. Non è facile per loro, né tale aspetto è di mia competenza. Da medico le ho disegnato in maniera chiara lo scenario: tutti siamo chiamati a una scelta. Io sceglierei di non andare a cena fuori con amici, e forse neanche con i miei cari, per paura di contrarre il virus alla minima distrazione. Ma io ho uno stipendio, me ne rendo conto, e altri sono chiusi».

E allora cosa si potrebbe fare?

«Si potrebbe, e forse si dovrebbe, fare un ultimo sforzo civico e scegliere responsabilmente di stare chiusi, al limite in “arancione” per altre tre settimane. Dico responsabilmente perché in queste tre settimane si dovrebbe puntare a potenziare il potenziabile e programmare il programmabile in attesa della campagna di vaccinazione anti Covid».

Cosa significa «potenziare» e «programmare»?

«Significa tante cose. Potenziare il sistema dei tamponi molecolari delle microbiologie e dei laboratori esistenti attraverso macchinari adeguati, livellando verso l’alto la potenzialità diagnostica. Razionalizzare le campagne di tracciamento con tamponi rapidi per le comunità chiuse e i gruppi di popolazioni standard, comprendendo ristoratori, esercizi commerciali, uffici pubblici, scuole, con cadenza settimanale, anziché impegnare risorse in afinalistici screening di massa. Lo screening ha senso al calare drastico della curva dei contagi, oggi quindi non sussistono le condizioni scientifiche per farli. E infine tavoli di lavoro con le associazioni di categoria, tipo i ristoratori, per una riapertura in sicurezza basata su regole dettate delle evidenze note».

Cosa pensa sia utile per la riapertura serale dei locali?

«Tavoli distanziati e numero di ospiti allocati per tipologia di tavolo e metri quadri del locale. Prenotazioni settimanali e pause tra il cambio turno per disinfezioni dei locali. Condizioni di areazione dei locali e tipologia dei servizi igienici. E poi un’innovazione: chiudere di piazze e ville in corrispondenza della apertura dei locali e così via, a tappeto, per ristoranti, cinema, teatri e palestre. Stando attenti a un concetto base: aperture sì, ma a ritmi ridotti e proporzionalmente incrementate al regredire della curva».

E così potremo tirare un sospiro di sollievo, in attesa del vaccino.

«Non ancora, non basta. Bisogna chiudere i confini della Sicilia a soggetti sprovvisti di certificazioni di negatività e a regioni con andamento epidemiologico più critico del nostro. Inoltre, urge una pianificazione immediata della strategia organizzativa del piano di vaccinazione. Riorganizzare gli ospedali in Covid puri e non Covid per macro-aree nel caso dell’azzerarsi della epidemia ma anche nella previsione di nuove ondate. E poi piani di formazione specifica di giovani anestesisti e rianimatori. Infine, va riaffrontato, anche a livello regionale, il tema dell’organizzazione, della formazione e il senso stesso della medicina territoriale che così ha dimostrato di non essere funzionale: c’è bisogno del medico di famiglia non del medico di base o generale».

Twitter: @MarioBarresi

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