Il covid in Italia, è trascorso un anno dal “paziente 1” di Codogno

Di Redazione / 20 Febbraio 2021

Milano – Tutti ricorderanno dove si trovavano o cosa facevano quando l’Italia ha conosciuto il suo ‘paziente unò. Nessuno immaginava quello da quel momento sarebbe successo. E’ il 20 febbraio del 2020 quando Mattia Maestri, manager d’azienda 38enne, con febbre alta e una brutta polmonite viene sottoposto ad un tampone da Covid-19 dall’anestesista Annalisa Melara, di turno nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Codogno, in provincia di Lodi. I giornali quel giorno parlano di tutt’altro e, per l’ultima volta, in prima pagina il Covid 19 non c’è. Il virus fino ad allora è confinato in Cina, o almeno così si pensa. Cinese è anche la coppia di turisti ricoverati allo Spallanzani di Roma, positivi al Sars Cov-2. Mattia è il primo positivo italiano, il primo acclarato. Lo chiamano paziente uno, ma gli anelli della catena che hanno portato al suo contagio sono introvabili, sebbene quelli successivi non tardino ad arrivare. 

Mattia Maestri in campo per una partita di beneficenza con sindaci e sanitari

Presto risultano positivi anche gli amici di Mattia, la moglie e gli operatori sanitari che lo hanno curato. Intanto a Vò Euganeo, in Veneto, si registra anche la prima vittima. In provincia di Lodi dieci comuni vengono per la prima volta bollati come “zone rosse”, qualcosa che si è visto soltanto in televisione, con le immagini di Wuhan. Sono Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo, e San Fiorano. L’ordinanza del ministero della Salute serra le porte di scuole e attività non essenziali e sospende manifestazioni pubbliche. Sono oltre 50 mila gli abitanti isolati. Disseminati per la regione compaiono i ‘check point’ presidiati da esercito e forze dell’ordine: si entra e si esce solo con un permesso dalla prefettura. 

Comincia l’assalto ai supermercati, la diffidenza della gente per le strade, le code fuori dai negozi e dalle farmacie. Invano: le mascherine sono introvabili. Ad inizio marzo il mondo è sgomento davanti alle immagini dei camion dell’esercito che trasportano via le vittime di Bergamo. Gli abitanti descrivono, nel silenzio, le sirene delle ambulanze che corrono ad ogni ora. L’angoscia, ogni volta, che sia per un familiare, un amico, un compagno di scuola o un collega. Negli ospedali mancano i posti e si ragiona come in guerra: resta chi ha più probabilità di sopravvivere. Di lì a poco, arriveranno i focolai nelle residenze per anziani. Migliaia di vittime. Solo il 7 marzo viene disposta la chiusura dell’intera regione Lombardia, due giorni dopo tutta l’Italia, il primo tra i paesi europei, entra in lockdown per uscirne soltanto due mesi più tardi. E un anno dopo, non è ancora finita. 

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