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Catania, la notte (senza Natale) in ospedale: uno sguardo come terapia di speranza

Di Mario Barresi |

Mezzanotte è passata già da un pezzo. Quando l’ambulanza di biocontenimento porta qui l’ultimo paziente infetto, la giovane dottoressa, un batuffolo di ricci su un viso pulito da crocerossina, non riesce a trattenere un rigurgito di umanissima paura. «Un altro? Ma cosa sta succedendo oggi?». Il rigoroso primario, regalandole prima un sorriso che dura un paio di secondi, le ripete la frase con cui l’accolse qualche mese fa in reparto: «Benvenuta all’inferno, collega». E poi aggiunge: «Non è finita, il peggio non è ancora passato. Non possiamo mollare proprio adesso». Un altro medico, intanto, al telefonino contratta Radiologia per una Tac d’urgenza: «La situazione sta precipitando, la setticemia mette a rischio un arto inferiore», il timore che rimbomba in una stanza dove nessuno ha il tempo di immaginare come sarà la sua vita dopo il Covid. Anche perché non ci si ricorda com’era prima.

È notte fonda all’ospedale Cannizzaro. Non è la notte di Natale, ma potrebbe pure esserlo. Oppure quella di Capodanno, dell’Epifania o di Pasqua. Una notte come tante altre, come quasi tutte le altre. Con un brivido d’angoscia che rabbuia le stradine fra i padiglioni, dove non ci sono luci per festeggiare una festa che nessuno, in fondo, ha voglia di festeggiare. Anche perché in questa interminabile giornata – che vi raccontiamo acciuffandola al tramonto e ricominciandone un’altra, fino all’alba – sembrano tornati numeri preoccupanti. Dai 3-4 accessi quotidiani in pronto soccorso delle ultime settimane si passa a una dozzina. In ventiquattr’ore. «Piccoli focolai in alcune residenze per anziani dell’hinterland», scopriremo a giorno già fatto dalla voce del direttore generale Salvo Giuffrida.

Questo è il reparto antivirus per eccellenza. Malattie infettive, con 20 posti nel “Covid 1” e 32 nel “Covid 2”. Altri 40 se li dividono a metà Medicina e Pneumologia; 16 in Osservazione breve intensiva e 9 in Rianimazione. «Almeno quattro sono in condizioni gravissime», l’ultimo bollettino della sera. Carmelo Iacobello balla col contagio sin dal primo giorno. «Cominciammo ad aprile, da qui sono passati circa 300 pazienti», snocciola il primario di Malattie infettive. La differenza fra le due ondate? «Prevalevano gli aspetti di grave insufficienza respiratoria, che restano anche adesso. Ma con nuove complicazioni: setticemie, trombosi diffuse, emorragie interne».

Iacobello ci ha appena riassunto la «multifattorialità del Covid» con una metafora («S’incendia la casa per uccidere i topi»), quando sul suo tavolo arriva il caso più delicato della sera. Un paziente con un’ischemia a una gamba. L’infettivologo Giuseppe Strano gli esprime i suoi timori: «La situazione non promette nulla di buono».

L’anziano della Rsa in arrivo dal pronto soccorso entra in reparto alle otto della sera proprio quando le tre matricole col camice bianco dovrebbero smontare. Chiara Laudani, 30 anni, geriatra; Edoardo Piazza, 37 anni, al lavoro nella continuità assistenziale dal 2017; Rosario Urzì, 37 anni, laureato a luglio. Qui, per tutti, sono «i ragazzi». Ma con responsabilità da grandi. «Ognuno è utile con le proprie competenze, in un mese e mezzo ho imparato più di tutto il corso di laurea», ammette Edoardo. Che, dopo aver rinunciato alla specializzazione, qui ha trovato la molla giusta. «Ho imparato a mantenere la mente fredda quando gli occhi si annebbiano: proverò medicina d’urgenza», promette a se stesso.

Rosario, assoldato da appena tre settimane, ammette di «avere già litigato con alcuni amici che continuano a dire che il Covid è una stupidaggine», lui che ha scelto di non vedere i suoi genitori per evitare di esporli al rischio. L’esperienza al Cannizzaro gli è già servita a chiarire le idee sul futuro: «Farò l’anestesista», giura. «Nessuno ti fa pesare la differenza d’età e d’esperienza: siamo una squadra», scandisce Chiara. Rivelando il «forte impatto emotivo» che vive dal primo giorno, lo scorso 15 ottobre, nel «non potere vivere appieno il rapporto col paziente, perché magari c’è qualcuno che a un certo punto vorrebbe un abbraccio ma ci vede così bardati e nemmeno ci riconosce».

È il momento della vestizione. Medici, infermieri e operatori sanitari indossano tute e calzari, mascherine e visiere. Si trasformano negli astronauti che ormai siamo abituati a vedere ogni giorno, dall’inizio della pandemia. Eppure, osservati da vicini, sembrano diversi. Vedi le gocce di sudore, percepisci l’affanno, cogli la pesantezza di un rito che «dobbiamo fare anche 4-5-6 volte al giorno». Con la consapevolezza che «la cosa più rischiosa, a livello di contagio, è quando ti svesti». È lì che il virus t’aspetta al varco.

Alle 22 parte la squadra per i controlli nelle stanze del reparto. La seguiamo, a debita distanza, restando a destra della linea gialla che traccia, in un corridoio stretto e lunghissimo, la frontiera fra la “zona pulita” (dove restano alcuni sanitari per aggiornate la cartella) e la “zona sporca”, ovvero l’altra metà che dà sull’ingresso delle stanze. La «signora della due», stanotte, è irrequieta. La terapia sta funzionando. Sul corpo. Ma l’anima si ribella. «Non ho più fame d’aria, ma ora voglio vedere un sorriso. Della mia famiglia, degli amici, di chiunque», sbotta da una fessura della porta da cui fanno capolino i signori con lo scafandro bianco. «Chi sei? Non ti conosco?», chiede a chi è costretto ad abbassare di qualche millimetro la maschera protettiva.

Gli occhi. La differenza, qui dentro, la fanno gli occhi. Sono l’unica parte del corpo che resta visibile, l’unico segno particolare che distingue gli uni dagli altri. E quando la «signora della stanza 4» scorge lo sguardo dell’operatore socio-sanitario Amico (di nome e di fatto) si placa. Ma non si rasserena. Gli occhi, certo. Ce ne vorrebbero una decina, per osservare in contemporanea tutti i pazienti dalla centrale di monitoraggio. Tre maxi-schermi allineati con dentro i francobolli delle stanze, tutte a pressione negativa. Ed è da questa prospettiva che hai la vera percezione della malattia. Del dolore. E della paura. Ma soprattutto della solitudine.

«Certe volte chiamano soltanto per vedere entrare qualcuno in stanza, per un conforto umano», confida Strano mentre sistema la cartella del nuovo ricoverato. «Ogni persona che arriva viene visitata, qui da noi». Sembra un’ovvietà. Ma non lo è. Poi ingrandisce l’inquadratura di ogni paziente. Un’anziana si tormenta quei maledetti fili, fino quasi ad attorcigliarseli addosso. E in un raptus di rabbia rompe la maschera Cpap. «È qui da 21 giorni e ora è negativa, ma non la vuole nessuno, né le Rsa né i familiari». E lei, imprigionata lì dentro, è come se l’avesse capito.

Una terapia di sguardi e di sorrisi, qualche millimetro di umanità sotto quella tuta già inzuppata di sudore. Loro e i pazienti. Con mille barriere, ma senza filtri. «Anche perché – ammette Iacobello – la cosa che mi fa incazzare di più, da infettivologo, non è l’indisciplina della gente là fuori, ma l’assenza di un’idea di terapia per i malati. Adesso si parla solo di vaccini per i sani, ma sui malati abbiamo le stesse armi, rudimentali, dell’inizio della pandemia». Eppure fuori la percezione è già diversa. Dalla retorica degli eroi col camice bianco all’insofferenza da secondo lockdown. «Nella prima ondata – ricorda il primario – la gente si ricoverava terrorizzata, ma con fiducia. Ora c’è sfiducia e insofferenza». Dal tricolore in balcone ai raduni dei negazionisti è un attimo. «E noi, sempre appoggiati dai vertici sanitari dell’azienda, sentiamo meno la vicinanza delle istituzioni, ma soprattutto della società civile».

Arrivano le pizze. Alle 22,40 è appena tornata la seconda squadra di controlli nelle stanze. Anche l’ultimo ricoverato è stato sistemato. Ne approfittiamo per raggiungere Santo Distefano, responsabile dell’unità di Terapia intensiva respiratoria e di un altro dei reparti Covid. Gli chiediamo di mostrarci come funziona un progetto-pilota, «l’unico a livello nazionale», che sta coordinando: quello della telemedicina. «Abbiamo preso in carico 12 pazienti dimessi, che ora vengono curati a domicilio, con tutte le dotazioni necessarie e un controllo a distanza 24 ore su 24».

È l’upgrade della terapia dei sorrisi, che abbondano e sono familiari rientrando a casa propria. Proprio mentre parliamo arriva l’allerta di un paziente “ricoverato” nell’hinterland etneo. «S’è staccato il tubo». Il computer segnala l’anomalia. Un operatore chiama, nonostante l’ora tarda, e risolve il problema grazie al provvidenziale intervento di un familiare. È quasi un sollievo, per Distefano, occuparsi anche di queste storie a lieto fine dopo «esperienze indimenticabili, storie terrificanti, con persone che se ne vanno, lucide fino alla fine». Lui, talvolta, le sente risuonare nelle notti insonni, quelle urla: «Intubatemi, intubatemi!».

Di notte la gente è più facile che parli. Anche delle storie brutte. Come da bambini, quando si esorcizza la paura del buio raccontando le storie dei fantasmi. E, da aprile a oggi, qui di spettri ne aleggiano tanti. C’è quello di un uomo, malato di cancro, che è riuscito a ricevere il biglietto di sua moglie. «Forza amore!», l’incitazione prima di quell’ultima videochiamata. «Voglio vederlo», implora la donna. Che riesce a convincere un’infermiera a fare una video chiamata. Lui non riesce a parlare. Lo fa lei. Per tutt’e due. Le basta quello sguardo – anche qui: gli occhi come estrema terapia del dolore – di lui che le conferma un amore che andrà oltre. «L’indomani mattina è morto. Ma, dopo aver sofferto per settimane, sembrava che avesse un volto sereno».

Oppure si sente ancora la maledizione di quei due destini incrociati. Un padre e un figlio, ricoverati assieme. Prima in reparto, poi in terapia intensiva. Entrambi. Prevale la legge della giungla: il giovane migliora, il vecchio s’aggrava. «Vuoi vederlo?», chiedono al figlio. E lui scuote la testa: «No, se lui è come ero io fino a qualche giorno fa. Non voglio ricordarlo così». Non l’ha visto più, suo padre. L’hanno portato via, qualche giorno dopo, dentro una bara sigillata.

Ma sono sempre gli occhi i protagonisti, anche nell’album dei ricordi più tristi. Gli occhi, lo sguardo. Gli unici mezzi di comunicazione di un malato di Sla, poco più che cinquantenne. «Non parlava da due anni, ma voleva vivere. S’è positivizzato – raccontano – nonostante gli sforzi. Ha lottato, come un leone. Il suo cuore sembrava che non volesse smettere di battere». Ha smesso, alla fine. Dopo aver visto, per l’ultima volta, la famiglia. Dentro un tablet, col display bagnato dalle lacrime.

Bisognerebbe farli venire qui, gli impazienti dell’happy hour e gli orfani delle settimane bianche. Qui, in una notte come tante altre, a parlare con Donatella Arcifa e Angelo Pistorio. Due infermieri. Lei, brontese, l’ultima assunta; lui in corsia da trent’anni. «Quando mi hanno assegnato al reparto Covid stavo morendo di paura – confessa Donatella – ma oggi non saprei fare altro che lavorare qui». Angelo, che è «entrato con una legge speciale nel 1990 per combattere l’Aids», ne ha passate tante: la Sars, l’Ebola, «ma niente è stato come quello che stiamo vivendo». Entrambi condividono un supplizio. «Essere costretti a negare il contatto umano. Quello nostro, che ai pazienti proviamo a sorridere senza sfiorarli, anche quando ci scapperebbe un abbraccio. E quello dei familiari, che ci implorano per una videochiamata, che talvolta facciamo di nascosto col nostro telefonino». E quei pochi attimi sono un’eternità. Non felice. Ma serena.

La notte scorre. Alle prime luci dell’alba l’ospedale sembra risvegliarsi dal torpore. Pur non essendo mai andato a dormire. Il dottor Strano è nella sua stanza. Non sembra stanco, quando alle sei squilla il suo telefonino. «Cara signora, come sta? Ma sì, anche noi la pensiamo sempre… Quando tutto questo sarà finito, facciamo una bella festa e ci sarà anche lei. Va bene? Mi stia bene… Sì, sì, ci sentiamo domani». Era un’ex paziente. Rimasta al Cannizzaro per due mesi. Pureda negativa, persino da quasi guarita. «La figlia non la voleva», il retroscena della lungodegenza.

Cornetti e caffè, il sole non è forte eppure c’è. Ma la sensazione di calore è gelata dal verdetto atteso: «Dovranno amputargli una gamba». Sì, il paziente positivo con la «complicazione» della setticemia. Non c’è altro da fare. Strano sbatte una carpetta sulla scrivania. S’arrabbia. Ma non s’arrende.

Si sente la sirena di un’altra ambulanza. E riecco gli occhi. Quelli stanchi del dottore, con una luce che brilla nonostante sia già giorno maturo. Occhi che parlano, che urlano a chi ancora, di nuovo, sostiene che «non ce n’è Coviddi». C’è, eccome. Anche in questa notte. Che sembrava di Natale. Ma non lo è.

Twitter: @MarioBarresi

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