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Università Catania, prima sfida tra orgoglio e pregiudizio (ma nessun vero “rettore del cambiamento)

Di Mario Barresi |

Catania – Appena arrivati sembra di essere all’entrata di un rifugio antiatomico. «Sì, è vero: siamo ammaccati. Ma almeno, dopo quello che è successo, ricominciamo a parlarci guardandoci in faccia. E non solo sproloquiando sui social o tramando sulle chat». Il volto corrucciato, ma fiero, di Saro Mangiameli – ordinario di Storia contemporanea, storicamente a debita distanza dalle stanze del potere accademico – è l’immagine (positiva) di un ateneo ferito. All’ingresso dell’auditorium dei Benedettini, prima che cominci il primo confronto pubblico fra i cinque aspiranti rettori dell’Università di Catania, c’è persino qualcuno che confessa sottovoce: «Quando mi presento, da un po’, evito di dire subito che faccio il professore universitario… La nostra immagine, a Catania, è a pezzi».

Orgoglio e pregiudizio. Venerdì scorso la prima sfida fra Salvatore Barbagallo, Agatino Cariola, Vittorio Calabrese, Roberto Purrello e Francesco Priolo (nell’ordine sorteggiato dal decano Vincenzo Di Cataldo), ospiti del Dipartimento di Scienze umanistiche, anch’esso coinvolto nell’inchiesta “Università Bandita” – nome che qui dentro continua a fare indignare un po’ tutti – con la direttrice Marina Paino e il docente Orazio Licandro (ex assessore di Enzo Bianco), fra gli indagati, entrambi in sala.

Punto primo: c’è davvero voglia di cambiarla, quest’università colpita in pieno dalla bomba giudiziaria? L’autocoscienza c’è, l’autocritica meno, per la rivoluzione bisognerà attendere. «Dobbiamo ridare a questa istituzione l’immagine che le è consona», dice Barbagallo. «Mi auguro che la magistratura chiuda l’inchiesta in tempi brevi, accertando presto responsabilità e innocenze, non è possibile dover attendere 20 anni», afferma Cariola. «Cambiamento, cambiamento, cambiamento», è il grido borrelliano di Calabrese, consapevole che «fuori c’è una società che ci guarda con occhio severo». Esplicito Purello: «È stato costruito un teorema dai magistrati, dobbiamo augurarci che non sia vero ma se lo fosse io mi dissocio dal comportamento di tanti amici e colleghi». La ripartenza? «Non può dipendere soltanto da noi». E Priolo, parlando di un «un momento drammatico, il più grave dopo il terremoto del 1693», invoca la «riconquista dell’onorabilità», auspicando che «si volti pagina in maniera decisa, con una pietra tombale su tutte le divisione che hanno lacerato l’ateneo negli ultimi 10 anni: non voglio più sentire università bandita».

Così è, se vi pare. Nella plastica assenza di studenti (in sala nemmeno una decina), il dibattito è comunque pacato e pieno di contenuti. Al netto di un paio di promesse iperboliche in stile “Cchiù pilu ppi tutti” versione accademica. Certo, in attesa di una campagna elettorale balneare – nessuno, qui dentro, prende come una minaccia seria la lettera di diffida al governo nazionale per rinviare il voto e inviare un commissario -i candidati evitano di scoprire le carte. E quando Marisa Meli, da raffinata giurista-provocatrice, invoca un’«abitudine nuova: presentare, farci conoscere la squadra», tutti i suoi cinque interlocutori le rispondono con vaghe supercazzole di chi ancora spera di acquisire consensi promettendo posti da delegato. Sul tema più sentito, l’accreditamento Anvur (Agenzia di valutazione del sistema universitario) che potrebbe, col morto giudiziario in mezzo alla casa, far sprofondare Catania facendo perdere fondi, soltanto due passaggi netti. E contrastanti fra loro. Uno, rassicurante, è di Barbagallo, anche in veste di presidente del Nucleo di valutazione: «La priorità è portare spediti l’Ateneo verso l’accreditamento Anvur, non serve chiedere rinvii o procrastinare». L’altro, molto più prudente, è di Priolo: «Dopo un terremoto come quello che abbiamo avuto dobbiamo chiedere una proroga per poter affrontare l’accreditamento. Eravamo avanti, ma ci siamo fermati». In mezzo Cariola: «Non è una decisione che può prendere il singolo, nemmeno se è il rettore».

Ognuno cerca di dimostrare il quid da rettore. Non effetti speciali, ma proposte che attraggono e incuriosiscono. E così Purello propone che «il Vittorio Emanuele un campus universitario»; Cariola promette di «mettere in discussione alcuni aspetti nazionali, a partire dalla legge Gelmini»; Calabrese pensa a «uno stage di un anno all’estero obbligatorio per gli studenti»; Priolo promette «Un’università della partecipazione, un rettorato condiviso»; Barbagallo garantisce sulle «mie capacità, acquisite nei vari ruoli, a disposizione dell’ateneo». Ma forse la vera notizia, fra le righe, di questo primo round fra i candidati è che in questa campagna elettorale manca un vero e proprio “rettore del cambiamento”. Tutti a giurare di voler chiudere col passato, ma nessuno che spieghi come cancellare, con i fatti, la lettera scarlatta della presunta corruzione. E nessuno che prenda le distanze nettamente dai protagonisti degli scandali. Legittimo. Ma discutibile. Magari avrà pure ragione Saro Faraci, docente di Economia, che in un intervento-fiume («più che una domanda è un discorso da rettore-ombra», gli dicono), quando ammette che nel dibattito ci sono «falso moralismo, finto legalismo, artificioso perbenismo, ingannevole eccellentismo, se così può dirsi, e un pizzico di tatticismo». O magari è salvifico il consiglio di Elita Schillaci, che scandisce «l’elogio del malessere per capire il benessere». Perché, in fondo, è solo questione di parlarsi. Non addosso. Perché magari, ironizza qualcuno, questa Università non è “bandita”. Ma soltanto bendata. Sulle ferite. E negli occhi.

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