Marisa Scavo, procuratrice aggiunta a Catania, si occupa da vent’anni di reati in cui le vittime sono le donne. E lo fa non solo da magistrata, ma anche da relatrice, a scuola, nelle università, nei convegni organizzati dalle associazioni antiviolenza, in tutte quelle occasioni in cui si parla di violenza di genere.
Il punto per lei è chiaro. «Bisogna creare dei programmi di recupero per questi soggetti che hanno una propensione alla violenza nei confronti delle donne».
In vent’anni sono stati fatti dei passi avanti oppure no?
«Normativamente dei progressi sono stati fatti anche se ancora la legge va perfezionata. Per esempio, non hanno previsto l’aumento di pena minimo a due anni per il reato di stalking, cosa che ci impedisce di effettuare il fermo. Quando sono stata sentita alla Commissione parlamentare della Camera nel 2019 avevo detto che bisognava aumentare la pena minima sia per i maltrattamenti che per lo stalking, in modo da consentire di fare il fermo quando la flagranza veniva meno, nel primo caso è stato fatto, nel secondo no e quindi abbiamo già questo limite enorme».
Tutti si chiedono se la morte di Vanessa Zappalà si poteva evitare…
«Noi abbiamo fatto di tutto per quanto riguarda l’attività d’indagine, abbiamo chiesto la misura cautelare, è stato agli arresti domiciliari, aveva il divieto di avvicinamento. È chiaro che il gip quando poi riceve una richiesta del pubblico ministero è autonomo nella sua valutazione».
Ma allora dov’è l’intoppo?
«Non è certamente da attribuire a un ritardo nella conduzione nelle indagini. L’intoppo è che per questi soggetti nel momento in cui vengono denunciati si deve attivare un meccanismo che li metta in cura presso dei centri di recupero che in Sicilia, purtroppo, non esistono assolutamente. Dev’essere un po’ come quando si procede a dei percorsi di cura per i tossicodipendenti. La misura cautelare, io lo ripeto sempre, è temporanea, ha un inizio e una fine e non può essere risolutiva. Qui il problema è più ampio».
Se uccidessero 41 giornalisti l’anno o 41 magistrati qualcosa si smuoverebbe, o no? Perché per 41 donne morte ammazzate (finora) non bastano per affrontare il problema come una vera emergenza sociale?
«Secondo me il discorso è che in realtà, non avendo una conoscenza approfondita del fenomeno, non si capisce che ci sono delle misure urgenti da adottare proprio nei confronti di queste persone. Non posso dimenticare, tantissimi anni fa, un tizio che era stato condannato per stalking e aveva scontato la sua pena dall’inizio alla fine. Appena uscito dal carcere la prima cosa che ha fatto è stata recarsi di mattina presto davanti al cancello della fabbrica dove lavorava la sua ex per accoltellarla. Per questo dico che è importante il lavoro di recupero».
Se delle ragazze nelle stesse condizioni di Vanessa le dicessero che, alla luce di ciò che è accaduto, denunciare è inutile cosa risponderebbe?
«Che devono denunciare. Non è vero che sia tutto inutile, noi abbiamo un protocollo di indagine e un protocollo di linee guida per la polizia giudiziaria che, applicato nel corso di questi lunghi anni, ha salvato tante potenziali vittime. Agiamo con la massima tempestività, lasciamo un numero di cellulare attivo h24 cui rivolgersi, proprio per consentire alla vittima di chiedere aiuto immediato. Certo, il tempo per intervenire dev’esserci. Ma le denunce vanno sempre fatte. Poi quello che raccomando alle vittime è di non avere mai incontri “chiarificatori” con i loro carnefici perché tante volte loro agiscono sul senso di colpa delle donne. La vittima ci casca e consente quell’ultimo incontro “per spiegare” che spesso si trasforma in un incontro mortale».
Delle sezioni dedicate a questo genere di reati esistono in ogni fase processuale?
«C’è una raccomandazione del Csm in proposito. In Procura esiste da tempo un pool di colleghi bravissimi nel mio gruppo di lavoro, ma non c’è né nell’Ufficio del gip né in tribunale o, meglio, in Tribunale c’è una sezione cui vengono attribuite principalmente queste materie ma non è una sezione “esclusiva” per questa tipologia di reati».