La Procura della Repubblica di Gela guidata da Fernando Asaro aveva visto bene se è vero come è vero che nell’aprile scorso, seppur senza la connotazione mafiosa (ed in presenza di molteplici sospetti) aveva individuato ed arrestato Rosario Marchese, insieme ad altri cinque sodali alcuni dei quali catturati ieri a Brescia insieme al suo leader, nel contesto dell’operazione Leonessa che, per una fatale coincidenza è stata eseguita mentre a Gela scattava un’altra operazione antimafia denominata “Stella cadente” che ha messo in ginocchio la struttura stiddara locale.
Rosario Marchese originario di Caltagirone, poco più che trentenne, aveva scelto di operare a Gela fissandone la residenza e il raggio d’azione. Ma – sostengono gli investigatori – prima in combutta con il clan Rinzivillo e da ultimo con gli stiddari gelesi trapiantati al nord, a Brescia, Angelo Fiorisi e Roberto Raniolo.
Percorso giudiziario complicato quello di Marchese che pensò di collaborare con la giustizia per allontanare l’azione della magistratura antimafia, facendo alcune ammissioni per poi, ritenendosi al sicuro e riprendere le attività criminali oltre Stretto avvalendosi della collaborazione degli stessi personaggi che a Gela avevano fatto il bello e cattivo tempo: Salvatore Sambito, 38 anni, commercialista e consulente finanziario di Palma di Montechiaro; il gelese e suo braccio destro (e sinistro) Giuseppe Nastasi, 35 anni, l’avvocato Roberto Golda Perini, 56 anni di Milano, e Gianfranco Casassa, consulente di Brescia, 54 anni. Tutti arrestati ieri insieme a due figure criminali eccellenti, veri promotori dell’organizzazione insieme a Marchese, gli stiddari gelesi Angelo Fiorisi e Roberto Raniolo.
Marchese, che girava con una Porsche del valore di 103mila euro, faceva “girare” milioni di euro attraverso un codice, un numero banale, che movimentava montagne di soldi a tutto vantaggio del clan. Il codice era 6742, quello delle compensazioni fiscali per gli investimenti nelle aree svantaggiate.
Attraverso questo codice, prima a Gela e poi nel nord Italia, Marchese ha incamerato – sempre secondo l’accusa – milioni e milioni di euro utilizzando professionisti compiacenti così come compiacenti (e in crisi) erano le aziende utilizzate per frodare soldi allo Stato.
Scrivono i magistrati di Brescia: «… tale attività di riciclaggio era favorita dall’attività di un ragioniere di Gela, Rosario Marchese, il quale, temendo di essere coinvolto in qualche operazione di polizia e quindi di essere arrestato, rendeva, su delega orale dell’Ag, precise dichiarazioni ad ampio raggio che riguardavano da un lato l’associazione mafiosa oggetto di indagine, dall’altro l’attività di riciclaggio da questa posta in essere. La presunta collaborazione di Rosario Marchese, ben lungi dall’essere frutto di un reale ravvedimento e di un effettivo ripensamento sulle scelte effettuate nel corso del suo percorso criminale, appariva strettamente connessa a calcoli utilitaristici e alla volontà di preservare da provvedimenti giudiziari, trasferendolo in altre località della penisola e in particolare a Brescia un articolato know-how acquisito in tema di riciclaggio e reinvestimento di capitali illeciti. Verificando le motivazioni che avevano indotto il Marchese a rendere dichiarazioni alla polizia giudiziaria emergeva che, a causa di alcuni ritardi nel disbrigo delle pratiche che stava gestendo a favore di una consorteria mafiosa di Catania – i fratelli Mazzei, appartenenti al clan dei Carcagnusi – egli era diventato oggetto di minacce e di una richiesta risarcitoria di 100mila euro».
Altri due agrigentini, i fratelli Giuseppe e Filippo Carlino, di Sciacca, entrano nell’inchiesta e finiscono in manette per reati finanziari dato che, sostiene l’accusa, compensavano indebitamente debiti erariali previdenziali e assistenziali con inesistenti crediti d’imposta per «investimenti in aree svantaggiate per complessivi € 1.811.643.24 per l’anno d’imposta 2017».