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Meliadò alla Corte d’appello di Roma: valigia pronta e Catania nel cuore

Di Orazio Provini |

Catania – Il 20 luglio prossimo Giuseppe Meliadò s’insedierà alla presidenza della Corte d’appello di Roma, assumendo di fatto il ruolo per il quale all’unanimità è stato nominato dal Plenum del Csm alcune settimane fa. Si chiude quindi la sua esperienza a capo dell’omonimo ufficio distrettuale di Catania, dopo un periodo di grande impegno e proficuo lavoro.

Presidente, che cosa ha trovato al suo insediamento quattro anni fa a Catania e cosa lascia ?

«Ho trovato magistrati che lavoravano tanto, ma senza un progetto e una idea organizzativa di cambiamento; oggi i magistrati continuano a lavorare tanto, ma meglio; per essere più chiaro: ho detto sempre ai miei colleghi che non bisognava lavorare di più, ma meglio. Si sostiene a ragione che la giustizia non è un’azienda e tuttavia il principio di efficienza della pubblica amministrazione vale anche per l’amministrazione della giustizia e impone di conciliare qualità e tempi della giurisdizione, il principio del processo giusto con quello della sua ragionevole durata.

I maggiori progressi riguardano…?

«… I tempi dei processi di appello, che, specie nel settore civile, sono passati, in un quadriennio, da cinque anni a poco più di due; quelli di lavoro risultano già contenuti nell’arco di un biennio, con una riduzione del complessivo contenzioso ultrabiennale (a rischio, cioè, di sanzione economica per lo Stato italiano secondo la legge Pinto) di oltre il 65%. I processi penali registrano ancora una maggiore sofferenza, ma, anche qui, nell’arco di un biennio, i processi di appello più risalenti, iscritti sino all’anno 2015, si sono ridotti dal 41 % al 10 %.

Quali le carenze strutturali e di personale nel distretto?

«Il distretto catanese è fra i più esposti uffici giudiziari italiani, per la presenza di una radicata criminalità organizzata, per un diffuso disagio sociale, per il progressivo arretramento delle iniziative economiche e imprenditoriali. In questa situazione non vi è dubbio che le carenze di organico dei magistrati e del personale amministrativo pesano di più che in altri distretti e avrebbero imposto delle scelte di priorità (in punto di assunzione e di distribuzione del personale) che purtroppo sono tardate a venire.

Quale è la fotografia attuale fra Catania, Siracusa, Ragusa e Caltagirone?

«Carenze di organico si registrano in tutti gli uffici, ma, a parità di disagio, incidono di più in quelli di Siracusa, Ragusa e Caltagirone, soggetti, fra l’altro, a un maggiore avvicendamento di magistrati e spesso alla copertura solo attraverso i magistrati di prima nomina. Anche in tali uffici, tuttavia, grazie allo spirito di servizio di magistrati e personale amministrativo, oltre che alla capacità innovativa di una nuova generazione di dirigenti, si è riusciti a frenare la crescita dell’arretrato e a contrastare con efficacia i fenomeni criminali e quelli indotti dalla crisi economica».

Il Covid 19 ha creato disagi e non poche polemiche con l’Avvocatura sullo stato funzionale degli uffici

«Il Covid ha reso chiaro a tutti quello che era noto a magistrati e avvocati catanesi: che non è possibile amministrare la giustizia in condomini, appartamenti privati , monolocali e che tale situazione ha reso ineluttabile, ad esempio, la chiusura per mesi dell’ufficio del giudice di Pace. Per il resto voglio sottolineare due circostanze. La prima, che non è affatto vero che la giustizia “si sia fermata”: in pieno Covid, dall’8 marzo al 12 maggio, in Corte di appello abbiamo celebrato cento processi penali, portando a conclusione dieci maxi processi di criminalità organizzata. La seconda, che massima è stata, nel nostro distretto, la collaborazione e l’intesa fra i capi degli uffici e l’Avvocatura, con la quale, fra l’altro, abbiamo cercato di cogestire (mediante protocolli e linee guida condivise) la trattazione delle udienze civili e penali nella fase dell’emergenza».

A che punto è la realizzazione della nuova sede del palazzo di Giustizia, nell’ex palazzo delle Poste di viale Africa e come valuta la posizione di chi chiede che sorga altrove?

«Ogni opinione è legittima, ma voglio rammentare che l’ex palazzo delle Poste è stato acquistato con soldi pubblici per essere specificatamente destinato a sede degli uffici giudiziari e che la realizzazione del nuovo plesso giudiziario costituisce un’opera di preminente interesse pubblico per la Regione Siciliana, che non casualmente ha integralmente finanziato il progetto. Ricordo che il giorno in cui mi sono insediato a Catania, trovai, fra le poche carte presenti nella mia scrivania, un articolato progetto tecnico, con annessi calcoli metrici e capitolato, che prevedeva la costruzione di un albergo al posto dell’ex palazzo delle Poste, la “permuta” dell’area a favore di privati, la realizzazione, a titolo “gratuito”, del nuovo palazzo di Giustizia in un’area sita nel quartiere di Librino. Naturalmente, la proposta mi parve irricevibile. Nel frattempo, grazie all’impegno dell’assessorato delle Infrastrutture e dell’ufficio del Genio Civile di Catania, i lavori di demolizione della vecchia struttura, nonostante la sospensione per l’emergenza sanitaria, si sono conclusi nei tempi previsti e il concorso di idee avviato per la progettazione della nuova cittadella giudiziaria è in fase di arrivo e il progetto prescelto potrà essere appaltato entro la fine dell’anno».

Le polemiche e la crisi che coinvolgono la giustizia, quanto pesano in generale e in questo territorio?

«La giustizia, come noto, prescinde dalla ricerca del consenso dei cittadini, ma non può prescindere dalla loro fiducia. I recenti avvenimenti, che si dipartono dal c.d. “caso Palamara”, rischiano di mettere in crisi la legittimazione istituzionale stessa della magistratura, in quanto incidono sull’eticità dei comportamenti, con una virulenza di conseguenze priva di riscontro in questi anni, che pur hanno visto polemiche ricorrenti e di non poco momento fra la magistratura e la politica e all’interno della stessa magistratura. Ma se questa è la situazione, non si può restare nel pantano e bisogna ripartire; e per ripartire il punto di riferimento resta la Costituzione, che vuole i magistrati indipendenti, “senza timori e senza speranze”, garantiti da ogni condizionamento sia esterno che interno, ivi compresi i condizionamenti che possano derivare da un improprio uso dell’associazionismo giudiziario».

E veniamo alle correnti nell’Anm: al loro ruolo e alle loro funzioni.

«Le correnti dell’Anm hanno avuto un grande ruolo, che non può essere assolutamente dimenticato, nell’attuazione dei principi del giudice naturale e della pari dignità delle funzioni giudiziarie, in altri termini nello smantellamento dell’organizzazione gerarchica e autoritaria della magistratura, alla luce delle direttive pluralistiche e democratiche della Costituzione repubblicana. Non penso proprio che la magistratura italiana possa fare a meno del pluralismo ideale e organizzativo che è proprio di ogni formazione sociale. La teoria del “giudice solo” fa parte di un passato che è meglio non ritorni, di una magistratura ossequiosa e impotente che è meglio dimenticare. Il problema è , piuttosto, che le correnti devono ritrovare la loro vocazione ideale, e a tal fine, con opportune riforme, bisogna recidere ogni improprio legame, ogni indebito condizionamento sulle sedi istituzionali di governo della magistratura».

Quanto le costa lasciare Catania e quanto la gratifica il nuovo incarico romano?

«Catania è la mia città, una città seducente, ricca di identità, di storia, di estro e di una volontà antica di rinascita; una città che è difficile lasciare e che induce a ritornare, e pertanto tornerò, come in passato, a fare un po’ il pendolare. Vado a gestire la più grande Corte di appello di Europa ma l’esperienza della Corte che sta sotto il più grande vulcano di Europa viaggia con me».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA