CATANIA – È la scatola nera delle nostre vite. Delle loro, soprattutto: quelle dei millennials. Che si ritagliano brandelli d’esistenza solo fra un post e una chat. E anche stavolta la memoria degli smartphone custodisce gli orribili segreti di una notte di abusi e di risate, di sballi e di spacchiamenti.
La verità dentro i cellulari. A partire da un video, «della durata di pochi secondi, ma caratterizzato da riprese ravvicinate», che rappresenta la prova-regina dello stupro al “Caito”. Il filmato lo fornisce ai carabinieri proprio la giovane turista violentata dal branco catanese. «L’ho avuto da Roberto su Instagram (…) lui mi ha mandato un messaggio, dicendomi che aveva un video. Mi ha chiesto se volevo vedere il video e all’inizio io ho rifiutato». Ma poi, racconta la diciannovenne americana, «la mia amica Dalila… mi ha consigliato di ricevere il video perché poteva essere un’ottima prova per la polizia».
Ed è stato così. La tracotanza social di uno dei carnefici, che fornisce alla vittima il filmato (realizzato con «raccapricciante compiacimento», scrive il gip Simona Ragazzi) in cui si vedono due degli arrestati, Roberto Mirabella e Salvo Castrogiovanni, «nell’atto di abusare» della ragazza. I dettagli sono osceni, meglio censurarli. Della descrizione ci limitiamo a riportare che «si percepiscono auditivamente i lamenti della giovane, che è saldamente trattenuta per i capelli, e risate e sghignazzi dei giovani». E le immagini-shock corrispondono, pur nella loro breve durata, alla sconvolgente testimonianza della ragazza. I due giovani incastrati dal video negano la violenza, ammettendo «plurimi rapporti sessuali». Solo Mirabella, di fronte alla contestazione che si vede «nitidamente il gesto» dei ragazzi del branco che la tirano per i capelli, ammette che «qualcuno di loro (non sa chi) l’ha solo “toccata leggermente” per i capelli per potere meglio consumare il rapporto». E riconosce di aver ricevuto il video da Castrogiovanni, «che ne è stato l’autore», e di «averlo inoltrato “in buona fede” alla ragazza, non immaginando che lo avrebbe usato contro di loro».
Ma il telefonino della giovane babysitter racconta anche due film, entrambi dell’orrore, che scorrono in parallelo nella notte fra il 16 e il 17 marzo. Sono i file audio di lei che chiede aiuto disperatamente, mentre in sottofondo si ascoltano le voci di chi la sta violentando. Il primo è delle 23,07, destinataria l’amica Dalila: «Vogliono portarmi in spiaggia per fumare, ma io non voglio», dice con «in sottofondo voci maschili». Poi alle 23,12, quando si trovava ancora al bar di piazza Teatro Massimo. «Io sto male (incomprensibile) per favore, aiuto me… ragazzi (incomprensibile) a me e non vuole. In sottofondo voci maschili confuse», si legge nell’ordinanza. La vittima racconta di aver inviato la registrazione al suo amico Salvo. Due minuti più tardi, in un altra registrazione, si ascolta con chiarezza l’intenzione di uno dei giovani che sono con lei: «M’bare ta pozzu riri na cosa? A chidda ma isu ju…». La ragazza alla pari non capisce il dialetto catanese. Ma forse ha già capito. Tant’è che alle 23,17 («dal rumore sembra che la conversazione avvenga in auto», annotano i carabinieri) invia un altro audio: «Aiuto me, aiuto, sono auto…». Poco dopo la mezzanotte la turista invia la posizione Gps all’amico. I due successivi file vengono registrati mentre è già in corso lo stupro di gruppo. «Vieni qua!», le dice uno. «Non vogliooo», risponde lei. «Sì che vuoi!», incalza una voce maschile. Prima di proferire altre sconcezze interrotte dalle urla della giovane americana, da tre mesi a Catania: «Nooo, basta, non voglio, non voglio». Sono passati 12 minuti dopo la mezzanotte. E nell’ultimo file audio, annota il gip, oltre a «rumori di sottofondo», si sente «come il singhiozzo di un pianto». Lei spiega ai carabinieri: «ho mandato questo messaggio audio al mio amico Salvo T. quando avevano appena finito di violentarmi; non parlavo, stavo piangendo».
È tutto lì. A portata di display. Nel telefonino che registra, con una precisione amarissima a posteriori, anche tutti gli altri disperati tentativi di chiedere aiuto. «Quando si sono accorti che io avevo il telefono in mano e parlavo, hanno cercato di togliermi il telefono, ma io sono riuscita a tenerlo», dice la babysitter americana agli investigatori. Che raccolgono anche la tragica assurdità del mancato intervento dell’amico Salvo, più volte chiamato in causa con messaggi, geolocalizzazione e note audio: «Mi ha detto che non aveva la macchina e che non poteva aiutarmi». Alle 2,33 l’amico-traditore riceve l’ultimo messaggio: «Ti odio davvero». Il che, per il gip Ragazzi, «descrive lo stato d’animo della giovane donna per quanto patito e il dolore la rabbia per non avere ricevuto aiuto da chi avrebbe potuto farlo, avvalorando ancora una volta il rifiuto della giovane di accondiscendere alle avances sessuali dei tre ragazzi».
Nella memoria dello smarphone della ragazza ci sono anche i tentativi di chiamare il 112. «Consta con certezza che la giovane – scrive il gip – abbia tentato più volte di contattare il 112, sempre con chiamate perse (in totale 10), a riscontro del fatto di non potere parlare. In particolare, si susseguono due tentativi di chiamata alle 12,13, uno alle 00,16, due alle 00,18, quattro alle 00,58; ogni volta seguono tentativi di chiamata da parte dello stesso servizio 112 (“No caller Id”), che cerca di ricontattare il chiamante, ma senza esito, perché la donna non risponde». Racconta la vittima: «L’operatore del 112 ha riattaccato ed ha provato a richiamare ed io non potevo parlare», racconta, perché anche la sua bocca era in quel momento oggetto di violenza. Infine c’è anche registrata una chiamata al 911, il numero pubblico d’emergenza americano. Ma è inutile. Eppure da queste prove digitali «si ricavano una tempistica dei fatti coerente con il racconto di (…) e i caratteri di intensità, costanza e fermezza dei richiami di aiuto, che si susseguono in un arco di ben un’ora e 45 minuti e appaiono particolarmente significativi e credibili – si legge nell’ordinanza – anche alla luce del traballante stato emotivo della giovane, ebbra e intimidita dalla superiorità numerica e dall’atteggiamento costrittivo dei tre giovani».
È tutto tremendamente social in questo incubo. Anche lo sfogo della diciannovenne con l’amica catanese non avviene faccia a faccia. Ma su WhatsApp. Con Dalila «hanno continuato a chattare con l’amica fino alle 3,29 di quella mattina. Precisa che ebbero anche una video chiamata di 5 minuti», nella quale la vittima dello stupro «appariva sconvolta e piangeva». Nell’ordinanza è riportato lo scambio di messaggi: la statunitense scrive che «le hanno fatto del male e di non riuscire a credere quello che le è successo». E il gip ricostruisce: «Dalila le chiede se sia uno scherzo, ma lei insiste che non è uno scherzo e le manda uno screenshot riproducente i suoi tentativi di chiamata al 112 e a un di lei amico, Salvo tra le 00,13 e le 00,58. Poi aggiunge altri messaggi nei quali le fa capire di avere tentato di farsi aiutare da Salvo già alle 23,12 e fino alle 2,33, dandogli la posizione Gps».
Le chiamate alle forze dell’ordine, i messaggi d’aiuto all’amico Salvo, la chat con Dalila: seppur “virtuali”, sono «fonti plurime, oggettive ed esterne e tra loro convergenti». Anche perché accompagnate da altri elementi concreti. Come gli indumenti che la vittima indossava quella notte consegnati ai carabinieri, «tra cui un paio di calze di colore nero strappate, una gonna blu, un foulard e un paio di mutande».
Persino l’agghiacciante senso di impunità del branco si manifesta sui social. Tutti palestrati, sempre prodighi di selfie che pompano muscoli e attraggono like. Belli e maledetti. Uno di loro, Agatino Spampinato, qualche ora dopo gli abusi con vista sul mare della stazione ferroviaria di Catania, posta la ricetta della “crostata dell’amore”. E viene linciato – sempre virtualmente – sul suo profilo, come un beffardo boomerang che torna indietro ricoperto di fango.
Molto all’antica, invece, la laida vanteria che Mirabella e Castrogiovanni, dopo essere tornati al “Lupo”, rassegnano al barman del locale: «Ce la siamo spaccati». Un sussurro al bancone, le risatine complici. Ma Brancati, qui, non c’entra.