CATANIA – L’idea era quella di “svecchiare” il settore della ristorazione a domicilio. Guido Consoli, catanese, 27 anni, di quell’idea “sbirciata” a Londra ha fatto un business, catapultandosi con la sua società Prestofood.it in un mercato da due miliardi di euro l’anno solo nel nostro Paese. Parliamo di food delivery (il cibo consegnato a domicilio) uno dei nuovi lavori 2.0 che hanno cambiato le nostre abitudini alimentari.
«Quando abbiamo iniziato, nel 2013, l’esigenza era quella di innovare un settore che, di fatto, era ancora molto basato sulla tradizione e, quindi, al massimo, sulla consegna delle pizze a domicilio. L’obiettivo era quello di poter portare pietanze di ogni genere, a tutti gli utenti, a qualsiasi distanza fossero dal ristorante».
Come avete cominciato?
«Con 5.000 euro, nel 2013, e con i migliori partner della città che, di fatto, senza di noi non avrebbero consegnato cibo a domicilio. Nel 2016 è nata la nostra Srl con l’intento di sviluppare la società e abbiamo fatto un primo round di investimenti trovando un “angel working” (un investitore) che ci ha consentito un aumento di capitale di 150.000 euro, cosa che ci ha consentito di aprire a Palermo e Reggio Calabria, poi nel 2018 abbiamo fatto un’altra raccolta su un portale di crownfounding e abbiamo raccolto, tra piccoli e medi investitori, 209mila euro. Questi fondi sono serviti per consolidare i territori nei quali eravamo e per attivare il servizio in altre città del Sud, Messina, Lecce, Bari, Napoli, Cagliari e Sassari. Oggi siamo una delle startup leader nel food delivery del Sud Italia».
Quante persone lavorano con Prestofood.it?
«Siamo partiti da Catania con 10 driver e tre persone, compreso me, oggi abbiamo circa 250 rider in tutte le città, 12 collaboratori in ufficio e 7 city manager per ogni città in cui operiamo, tutto questo dal 2016 ad oggi».
Sono diverse le aziende che si occupano di food delivery, la concorrenza non vi spaventa?
«In Italia non c’è un leader unico (siamo circa 6 aziende) e, in genere, sono società che si contendono i territori, per esempio noi siamo riconosciuti nel Sud Italia ed è l’area nella quale riusciamo a mantenere un brand leader. Poi ci sono i competitor più grossi come Glovo, per esempio, o Deliveroo».
I vostri rider vanno in bici o in scooter?
«In scooter principalmente, ma anche in auto perché rispetto ai nostri competitor noi non poniamo limiti alle distanze per le consegne, accettiamo i driver anche con i mezzi a 4 ruote».
Sei mesi fa a Torino è scoppiata la protesta dei rider, sottopagati, senza tutele e qualche giorno fa una sentenza ha dato loro ragione, lei che ne pensa?
«La sentenza era relativa ad alcuni ex lavoratori di Foodora (una società tedesca di food delivery oggi assorbita da Glovo ndr) che avevano perso il lavoro dopo le proteste del 2016 nelle quali chiedevano un miglioramento delle condizioni di lavoro. Noi, sin dall’inizio, abbiamo sempre assunto i rider in assenza di contratto o norme come lavoratori Co. Co. Co e non c’è alcun rider nelle aziende italiane che si sia lamentato. Quelli che si sono ribellati lavorano per le multinazionali che li hanno assunti a prestazione occasionale o a partita Iva, purtroppo sono le società che hanno i numeri più alti in termini di assunzione».
È d’accordo su un contratto nazionale per i rider?
«Sì, soprattutto per avere regole ben definite ed evitare il dumping da parte delle aziende internazionali che, di fatto, con la prestazione occasionale riescono ad avere costi inferiori rispetto al nostro, quindi o marginare di più oppure a fare più offerte accaparrandosi i clienti. Mi spiego meglio. Se io vado in un ristorante e chiedo il 25 per cento, che è la mia percentuale, e una multinazionale fa lo stesso contratto al 15% perché sfrutta i rider, io chiudo e quell’azienda, invece, riesce a mantenersi in piedi».
Concorrenza sleale in poche parole….
«Praticamente sì. Noi siamo a favore di un contratto nazionale senza però escludere la parte datoriale, non si deve pensare che le aziende siano ricche e quindi in grado di mantenere qualsiasi tipo di contratto. Dobbiamo comunque allinearci in base al business, se io devo pagare l’Inps al 39%, più ferie e malattie, o un’Inail che per me è errata non è sostenibile. Abbiamo dei rider, mediamente, hanno un compenso di 600/700 euro al mese ma, secondo la legge italiana, e secondo l’Inail, noi dobbiamo pagare l’Inail per ogni driver su un minimale di 1349 euro. Secondo me è sbagliato, vorremmo che il minimale venisse abbassato a 500 euro e che l’Inps costasse meno perché, così facendo, di fatto il governo fa chiudere le società. Anzi, le società italiane chiudono e le multinazionali o continueranno a vivere in Italia agevolmente, o abbandoneranno il nostro Paese. In questo modo non creeremo niente, né per le aziende, né per i rider, anzi, di fatto distruggeremo quello che è stato fatto finora. Queste proposte – spiace dirlo – le abbiamo già fatte al Governo e al ministro Di Maio, quando siamo stati convocati al tavolo del ministero del Lavoro, ma dopo sei mesi non è cambiato nulla, anzi siamo stati accusati di non aver fatto proposte».
Qual è l’identikit del rider?
«Dal giovane studente fuori sede al 60enne che ha perso il lavoro. Ho rider che lavorano con me dall’inizio, oggi abbiamo meno richieste soprattutto da quando è nata questa diatriba con il Governo».
Quanto rende una società di food delivery oggi?
«Si parte dal 100% di uno scontrino e, poi, da quello scontrino si calcola il ricavo. Per esempio, se vendiamo una pizza 10 euro, di quella pizza noi incassiamo il 25%; il restante 75% lo ribaltiamo al ristorante. Per questo parliamo di “transazione”. Nel 2018 abbiamo avuto un “transato” di due milioni di euro, con ricavi all’incirca del 30%. Tutto questo a fronte di una raccolta fondi di 500mila euro complessivamente in tutte le nostre campagne di ricerca fondi».
Ed è una cifra alta?
«Per ora va bene. Ma tanto per fare un paragone Deliveroo ha investitori per 700 milioni di euro l’anno solo a Londra, il che dà la proporzione tra noi e loro. A marzo, comunque, avvieremo una nuova campagna di crownfounding».