Catania
La prof catanese tra le migliori cinque insegnanti d’Italia
Professoressa, come ci si sente a far parte dei 10 migliori insegnanti d’Italia?
«Non so – ha detto prima della proclamazione – se sono tra i 10 migliori insegnanti d’Italia, posso dire di esserlo in base ai criteri del premio. Ci sono tanti insegnanti bravi che fanno il loro lavoro con passione, in silenzio, che non hanno mai fatto domanda. Però, mi sento emozionatissima. E’ stato bellissimo scoprire di essere prima tra i 50 finalisti e poi tra i dieci. Certo non avrei immaginato di essere tra gli 11mila che hanno fatto domanda».
E’ stata una sua scelta insegnare in carcere oppure c’è capitata?
«L’anno scorso ci sono capitata, il carcere di Siracusa era l’unica sede disponibile, poi quando ho fatto domanda di trasferimento ho dato la mia disponibilità per insegnare al carcere di Bicocca, a Catania».
Non avrà trovato concorrenti per andare ad insegnare a Bicocca…
«Molti non vogliono andare e lo capisco pure, perché inizialmente c’è una sorta di paura, una presunta incapacità a non sapersi relazionare. Devo dire che anch’io il primo giorno a Siracusa ho pianto, ma ho pianto anche l’ultimo giorno, quando ho saputo del trasferimento».
Chi l’ha candidata al premio?
«L’anno scorso, in classe, ho parlato dell’esistenza di questo premio e c’è stato un mio alunno, a Siracusa, che si è illuminato in viso “Professoressa io la voglio votare!!!!”. Ma loro, in carcere, ovviamente, non hanno internet e così alla fine mi sono autocandidata. Poi ho letto bene come funzionava il progetto, ho visto che c’erano in palio 50mila euro e mi son detta, “ok, solo chi non prova è sicuro di non vincere”. E’ andata così».
Quant’è più difficile insegnare in carcere? Gli studenti si aggrappano di più alla figura dell’insegnante?
«In realtà c’è un distacco maggiore. Io lavoro in un istituto di alta sicurezza, quindi non posso tenere rapporti personali con gli studenti, cosa che normalmente faccio. Mi capita con i miei ex studenti di scambiare il numero di telefono, di sentirci anche dopo la maturità, magari di uscire per una pizza, qui è ovvio che non si può fare. Quindi da un lato c’è questo distacco, dall’altro gli studenti detenuti si legano molto ai docenti perché con noi un po’ del mondo esterno entra anche nella loro vita. Certo, poi dipende da come si trattano le persone. Io faccio capire loro che li tratto con rispetto, non come detenuti, ma come alunni, faccio capire loro che sono lì per lavorare e farli lavorare, come in una scuola qualsiasi, e loro questo lo percepiscono e lo apprezzano».
Frequentano la scuola perché vogliono ottenere un diploma?
«Loro, di base, non si iscrivono per il diploma, si iscrivono per passare il tempo e per avere anche un rapporto con altre persone. La maggior parte ha lasciato la scuola alle scuole medie, poi c’è anche chi non c’è mai stato a scuola. L’anno scorso avevo uno studente che era entrato in carcere praticamente analfabeta e in carcere ha fatto tutto il percorso scolastico, adesso è al terzo anno d’alberghiero».
Che età media hanno e per quali reati sono dentro?
«L’età media è sui 40-45 anni e si tratta di persone condannate per reati di associazione mafiosa».
Come si fa ad entrare nella testa di uno cresciuto a pane e violenza?
«In realtà io “entro” con il mio mestiere, con la massima professionalità, parlando di matematica. Non parliamo dei loro vissuti anche se i loro vissuti, che sono dolorosi, inevitabilmente emergono. Io entro nel loro cuore, più che nella loro testa, ma questo per me è il mestiere dell’insegnante: fare innamorare della materia, in questo caso la matematica, farli volare un po’ con la fantasia, in fondo la matematica ti trasporta in un altro mondo».
Avrei detto di più la letteratura, la poesia…
«Ma questo se si insegna la matematica in modo arido, come una serie di formule da applicare. Così è brutta sono d’accordo. Io ai miei studenti non racconto le proprietà, gliele faccio scoprire e quando questo accade, quando capiscono che matematica significa non una regola, ma una strategia per risolvere problemi sono molto contenti».
Quindi quando spiega il teorema di Pitagora come fa?
«Gli racconto anche la storia che c’è dietro, che era già noto agli antichi egizi i quali annodavano delle funi per disegnare due perpendicolari e in questo modo tracciavano l’angolo retto. Porto loro uno spago – chiaramente autorizzata – e gli faccio sperimentare il teorema di Pitagora».
Uno studente che l’ha sorpresa?
«Per parlare delle simmetrie una volta utilizzai l’esempio dei palindromi. L’indomani, un alunno non particolarmente brillante, mi portò una lista di palindromi. Pensare ad uno di 40 anni che per tutto un pomeriggio aveva scritto su un foglio quelle parole dopo la mia lezione, mi ha fatto tenerezza».
Le hanno mai detto che lei non somiglia affatto alla prof. di matematica classica? Quella che faceva venire gli incubi per le interrogazioni intendo…
«Decisamente (ride) io faccio passare il mal di pancia, non lo faccio venire».
Cosa significa per lei insegnare?
«E’ una passione, io non faccio l’insegnante, io sono un’insegnante. Quando entro in classe sono felice, ovunque sia la classe, in una scuola o in un carcere. Mi piace moltissimo trasferire agli altri l’amore che ho per la matematica».
Ha sempre voluto insegnare?
«In realtà all’inizio non ho pensato subito all’insegnamento. Mi piaceva la matematica, in realtà potevo anche andare in un’azienda e continuare nel settore della ricerca. Anche adesso, effettivamente, faccio ricerca anche se in un altro campo in “Didattica della matematica” al Dipartimento di matematica dell’Università».
Esiste la “buona scuola”?
«Esiste nel momento in cui la facciamo noi. Conosco tanti insegnanti bravi che svolgono il loro lavoro con passione, serietà e devozione. Infatti mi arrabbio quando vendo che sono trattati male perché ce ne sono tanti che lavorano bene e sono loro a fare la scuola “buona”».
Se lei vincesse il premio che ne farebbe dei 50mila euro?
«Mi piacerebbe che la scuola nella quale insegno in carcere potesse essere uguale alle scuole che sono fuori, che potesse essere di serie A. Vorrei dotarla di un’aula computer e di lavagne multimediali, vorrei dotarla di libri di testo, perché i miei alunni non li hanno, prendono appunti a penna sui quaderni che l’anno scorso abbiamo comprato noi insegnanti; solo quest’anno la scuola ci ha dato un contributo. E poi realizzerei un laboratorio di matematica con degli strumenti pratici che si chiamerebbe “Vietato non toccare”. Comprenderebbe anche le macchine di Archimede e varie altre cose. La mia idea è un centro di formazione per studenti e docenti. Chiaramente va tutto visto assieme al direttore del carcere».
E se non vince?
«Boh, non posso comprare libri per tutti. Chissà, potrei partecipare a progetti europei».
I suoi alunni che le hanno detto del suo ingresso nella Top ten dei professori più bravi?
«Erano felicissimi».
L’hanno accolta con un applauso?
«No. L’anno scorso mi hanno salutato con gli applausi e quella è un’emozione che mi rimarrà nel cuore».
Che cosa si aspetta da questa improvvisa notorietà?
«La cosa che mi fa più piacere è che si parli di questi alunni spesso “invisibili”. Nessuno si cura di loro, nessuno pensa che valga la pena istruirli, formarli…»
Alla faccia della rieducazione in carcere…
«Sì, per questo sono molto contenta che si parli di queste scuole».
LA SCHEDA
Daniela Ferrarello, 40 anni, originaria di Enna, sposata, un figlio, insegna matematica nella sede carceraria dell’Istituto alberghiero «Wojtyla» all’interno del carcere di massima sicurezza di Bicocca. Laureata nel 2001, lavora part-time a Bicocca e ha un dottorato di ricerca al Dipartimento di Matematica dell’Università di Catania. E’ entrata a far parte della Top ten dei finalisti dell’«Italian Teacher Prize» un premio che seleziona i migliori docenti per creatività e didattica innovativa. Tra loro verranno scelti 5 vincitori: al primo andranno 50mila euro.
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