Emiliano Abramo non s’è tirato indietro «per motivi personali e familiari». Ma per una sua precisa scelta. Politica. La sovrastruttura del chiacchiericcio che s’è appiccicato addosso alle ragioni formali della clamorosa rinuncia del candidato sindaco designato dal fronte progressista ha la stessa friabile discrezione di un segreto di Pulcinella. O se preferite, visto che è di Catania che si parla, la pantomima di ieri richiama le performance del compianto Pippo Pernacchia.
I comunicati di «piena solidarietà» e di «vicinanza» al presidente della Comunità di Sant’Egidio, quei riferimenti agli «imprevisti, gli attimi che cambiano le cose e che restituiscono il giusto valore alle cose», suonano come note stonate in una grottesca messa (laica: qui il “partito dell’arcivescovo” non c’entra) cantata. Nel giorno in cui si doveva festeggiare un matrimonio e alla fine s’è perso per strada lo sposo. E invece si celebra un funerale. Ma con un programma condiviso.
Non è poi così importante se loro-sanno-che-lui-sa-che-loro-sanno. In ogni caso, a prescindere dalla tracciabilità della filiera dell’ipocrisia, nella migliore delle ipotesi c’è un retrogusto di cattivo gusto. Enfatizzare (inesistenti) drammi personali per coprire (veri) psicodrammi politici è un respiro talmente corto da diventare un evidente affanno.
La verità è che Abramo – con il sincero augurio di lunga vita felice, a lui e alla sua famiglia; e in particolare alla sua splendida e sanissima moglie – ha deciso di mollare il fronte giallorosso sull’altare perché terrorizzato dal passo che stava per compiere. Quando domenica sera, dopo che s’erano diffuse le voci sul suo passo indietro, il cronista ha chiamato il candidato promesso, la risposta è stata una flebile smentita. «Sì, ci vado alle Ciminiere». Con la voce che, col senno di poi, sembrava quella di chi aveva già scritto il lungo comunicato di commiato. Una telefonata malinconica, ben diversa da quella che t’aspetti con chi l’indomani comincerà un’avventura entusiasmante seppur difficile. Ma tant’è. Abramo sembrava scioglieva la riserva, dopo le «quarantott’ore di tempo» chieste a chi venerdì l’aveva designato. L’ultima riflessione, forse, per confermare una scelta che in fondo – “Emiliano il Moderato” – aveva già in cuor suo preso da tempo. Sbagliando nel farla macerare troppo senza tirarla fuori prima. «Dirò a tutti che non mi faccio ingabbiare, voglio avere mani libere…», l’unica confessione smozzicata prima di un mesto arrivederci al giorno dell’incoronazione. E dopo quei puntini di sospensione, nel non detto dell’ormai ex candidato progressista, c’è la radice della scelta. Sofferta, fino a ieri mattina, nel frenetico giro di telefonate ai suoi interlocutori privilegiati, non tutti seduti a quel tavolo, per chiedere consigli sul da farsi. Eppure le «mani libere» che avrebbe voluto chiedere ieri alle Ciminiere, Abramo le aveva già chieste. Con l’educazione dello stesso ragazzino entrato a Sant’Egidio all’età di 15 anni, ma con la risolutezza di un aspirante candidato (pacioso quanto ambizioso) che non vuole «farsi rinchiudere dentro il campo ristretto» delle forze che l’hanno scelto.
«Mi candido soltanto se può esserci anche Raffaele Lombardo», andava dicendo, prima dell’alba del cammino progressista. Una predisposizione politica dell’animo, colta da La Sicilia, che gli era già costata un processo per direttissima, proprio nel giorno in cui il M5S a Palazzo degli Elefanti lanciava l’appello alle «forze sane e progressiste della città». E no, con l’ex governatore, allora in attesa del verdetto della Cassazione sul processo per mafia, proprio no. Non se ne parla. Così come con Enzo Bianco, tanto temuto quanto odiato su quei tavoli che, incontro dopo incontro, costruivano il programma con l’encomiabile sforzo di far volare alto una città inabissata in se stessa. Viene prima l’uovo o la gallina? Le idee o le persone che le incarnano?
Gli addobbi, il parrucchiere, i musicisti, il menu del banchetto, le bomboniere. Passano le settimane e la data fatidica s’avvicina. Anthony Barbagallo riesce pure a convincere quel guastafeste di Nuccio Di Paola a non ripetere lo stesso scherzetto delle Regionali. Spunta persino l’ipotesi di un ticket con l’ex ministra Nunzia Catalfo, vice Abramo in pectore con l’abito buono da madrina del reddito di cittadinanza. Magari si perde, ma bene. Tutto è pronto. Manca solo lui. Lo sposo. Che ieri mattina, a cinque ore dalla cerimonia, non ci sta più. Lo chiamano tutti. Anche dalle «istituzioni che ben funzionano», dov’è stimato, oltre che dal suo mondo. Quello della Chiesa, del volontariato, degli ultimi. E lui, ai pochissimi a cui risponde, non fa altro che ripetere la stessa triste litania: «Io non posso fare Che Guevara se non lo sono». Provando a spiegare il senso di incompiutezza che si sente addosso, nel non poter esprimere «il valore aggiunto» di una candidatura, la sua, che «doverebbe allargare anziché restringere, ma non me lo vogliono consentire», come confida a un ex grillino rinnegato. E non è soltanto una questione di lombardismo represso, al netto di chi (un vecchio saggio del centrodestra) sospetta che il ritiro di Abramo sia la prova – pasolinianamente indimostrabile, almeno per ora – che il leader autonomista sia davvero in campo per Palazzo degli Elefanti. Chiuse nell’armadio del “bravo ragazzo” di Sant’Egidio, restano l’amicizia col forzista Nicola D’Agostino, la stima del calendiano Giuseppe Castiglione, le tante relazioni con chi sta lontano, ben oltre lo steccato che gli hanno costruito attorno. E non è soltanto nomenklatura di partito, piuttosto il «patrimonio di rapporti costruiti a più livelli» (soprattutto a Roma), inutilizzabile nel cammino che sta per partire. «Non mi seguono così a sinistra». Impossibile fare la quarta lista, quella del sindaco, con le persone a lui più vicine.
Certo, Abramo poteva dirlo prima. Doveva. Evitando di passare per disertore, nelle file del gioioso (e sincero) esercito che avrebbe dovuto guidare. Ci si sarebbe risparmiati questa giornata tragicomica, conclusa con i dieci punti del programma ma senza più un candidato. E ora? Bocciata ogni ipotesi di apertura di dialogo con Bianco, a partire dai vertici del Pd. La linea del fronte progressista è chiara: si resta uniti e si cerca un nuovo candidato «nello stesso perimetro». Nessun nome, ovviamente, prima della liturgia del tavolo riconvocato. Potrebbe toccare al M5S esprimere una propria proposta, visti anche i veti di Barbagallo su alcune alternative innovative in casa dem. Il più quotato resta comunque Maurizio Caserta, un altro civico di alto profilo.
Ma è blasfemo dire che chiunque sarà, anche se dovessero riportare in vita un clone di Berlinguer, nell’imminente campagna elettorale sarà visto comunque come «il candidato scelto dopo che s’è ritirato Abramo»?