Notizie Locali


SEZIONI
Catania 17°

Contenuto riservato ai membri

L'intervista

Il linguaggio della malavita: dai falsi miti alla forza manipolatrice

Parla lo storico catanese Rosario Mangiameli

Di Laura Distefano |

Cambia lo strumento ma le “radici” sono immutate. Due i codici genetici: forza e omertà per affermare il potere. I mafiosi usano un linguaggio manipolatore. Dietro la violenza bruta e fisica, il brigante, il balordo, il boss interloquisce con toni diplomatici, quasi affabili. Lo scopo è convincere che la mafia è l’unica capace di difendere l’onore e in qualche modo mettere ordine. Quasi a voler citare il famoso detto: il fine giustifica i mezzi. Che per i mafiosi significa rubare, estorcere, uccidere, avvelenare, infiltrarsi. Il potere del sangue, della violenza, del terrore. La parola uccide a volte prima della lupara.

Il linguaggio gioca e ha giocato un ruolo fondamentale nella “sopravvivenza” stessa del crimine organizzato: sia come organizzazione che come cultura e mentalità mafiosa. La strategia del terrore per affermare il potere. Lo storico catanese, professore Rosario Mangiameli, è uno dei più affermati studiosi dei codici di linguaggio usati dagli uomini d’onore. E per saldare l’affermazione di potere la mafia avrebbe utilizzato nel periodo dello sbarco angloamericano in Sicilia addirittura l’arte dei miti e delle leggende. Anche la Sicilia avrebbe la sua “Ciociaria”, non nel senso geografico del termine ma pensando alla trama del libro cult di Alberto Moravia portato sul grande schermo da Vittorio De Sica con una superba Sofia Loren (che non a caso conquistò l’Oscar). Assieme alle truppe americane nel 1943 sarebbero arrivati nell’isola i goumier marocchini, soldati dell’esercito francese, che sarebbero stati utilizzati per le spedizioni in montagna. A Capizzi «pare siano avvenuti degli abusi sessuali a donne e uomini – spiega Mangialmeli – noi non sappiamo però l’entità di questa cosa. Ma da questo episodio nasce una diceria di vendetta, si racconta che i capitini avrebbero sterminato i magrebini». Una storia davvero inverosimile, pensando che a Capizzi in quel periodo di guerra c’erano solo gli anziani che sarebbero stati incapaci di vincere sulle truppe franco-marocchine. Magari ci sarà stata qualche vendetta, ma allora da dove nasce questo racconto così cruento? Tra le ipotesi «c’è quella di una cosca mafiosa che ha l’interesse a far sapere alla gente che hanno provveduto a vendicare». Una leggenda quindi che accresce la «credibilità» di chi ritiene di essere la depositaria della forza. A Licata ci fu un uomo che raccontò che il padre appena «vide i marocchini» li sterminò. Addirittura le vendette preventive.

Mangiameli ricorda che «il linguaggio mafioso può assumere forme di manipolazione più sofisticata». E cita alcuni personaggi della letteratura come esempi calzanti: don Mariano di Leonardo Sciascia (Il giorno della civetta) e il sindaco del rione Sanità (di Eduardo De Filippo). Nella dialettica del boss viene sempre riproposto lo scontro generazionale «tra mafia d’onore e mafia disonorata». L’emblema è la confessione di Tommaso Buscetta resa negli anni Ottanta al giudice Giovanni Falcone. Ma quello che raccontò il boss dei due Mondi in verità lo sapevamo già. Anzi avremmo dovuto saperlo. Perché altri ne avevano parlato. Addirittura un secolo prima. Mangiameli mette in chiaro che le fonti di studio sul linguaggio mafioso «sono gli atti di polizia e i processi«. E tra questi c’è la confessione manipolatrice del bandito Don Peppino il lombardo (Angelo Pugliesi, un calabrese trapiantato in Sicilia) che fece davanti ai giudici nel 1868. Quel brigante riuscì a unire tutte le bande della Sicilia. Don Peppino «parlò di regole mafiose, di affiliazioni, di comportamenti», spiega lo storico. Centocinquanta anni fa. Forse dovremmo imparare ad aprire meglio lo orecchie e ascoltare cosa dicono i boss di oggi. Più si conosce il nemico più si può sconfiggere. Falcone lo aveva fatto. Ora è il nostro turno.

COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA