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Il legale di Mario Ciancio: «Procedimento che si fonda sul mero sospetto e non sulla prova»

Di Redazione |

CATANIA – «Mario Ciancio è vicino ai mafiosi per decreto del Tribunale. Non perché lo abbiano percepito i cittadini di Catania che lo hanno avuto accanto per tutta la vita, non perché abbia commesso fatti eclatanti noti alla opinione pubblica, non perché abbia avuto frequentazioni poco chiare, ma per decreto. Un decreto che ha raccolto un mosaico variegato di sospetti e li ha fatti diventare il presupposto di un giudizio di pericolosità sociale. Quella persona che per tanti anni è stata al centro della società catanese, oggi è additata come persona che addirittura avrebbe riciclato il danaro della mafia. Editore di un giornale asservito alla mafia, i cui giornalisti sarebbero stati privi della libertà di pensiero». Lo dice in una lunghissima nota l’avvocato Carmelo Peluso uno dei difensori dell’imprenditore Mario Ciancio Sanfilippo.

La nota ripercorre alcuni passaggi della vita imprenditoriale dell’editore catanese, gli inizi, l’espansione degli interessi in agricoltura e nell’editoria e ricorda episodi come quando «il principe Carlo d’Inghilterra, con la moglie Diana, nell’anno 1984, decidono di visitare la Sicilia» e sono ospiti di Ciancio. «Una ospitalità passata, inevitabilmente – dice il legale – attraverso il filtro delle indagini del prefetto di Catania Verga – poi nominato Commissario antimafia – nonché dei servizi segreti di sua Maestà britannica per verificare il rigore morale e la trasparenza assoluta della famiglia che avrebbe accolto Carlo e Diana in Sicilia».

«E’ bene sapere che il procedimento di prevenzione antimafia si fonda sul mero sospetto e non sulla prova rigorosa della responsabilità, che è l’unica che può dar luogo ad una sentenza di condanna – spiega Peluso – Il Tribunale della prevenzione emette un giudizio sulla pericolosità sociale di un soggetto in funzione del sospetto di una sua “appartenenza” a sodalizi mafiosi. Ciò basta per rendere inquietante questo giudizio, che deve essere condotto con grande equilibrio, proprio per non indulgere al sospetto privo del requisito di “concretezza” che la legge impone». 

«Il solo auspicio è che il Giudice di appello abbia la serenità di valutare correttamente il materiale proposto dall’Accusa», continua l’avvocato Peluso. «Infinitamente difficile è fornire la prova di tutti gli investimenti effettuati in quarant’anni di vita dal Ciancio, essendo impossibile reperire presso le Banche documenti risalenti ad oltre un decennio – scrive Peluso – La Difesa ha ricostruito quanto possibile, con attenzione e dovizia di particolari, dovendo arrendersi solo davanti all’assenza di dati ultraquarantennali. Oggi, però, fa male leggere nel decreto del Tribunale che Ciancio nei primi anni Settanta avrebbe riciclato due miliardi e mezzo di lire provento di attività mafiose, solo perché è difficilissimo reperire la documentazione relativa alla provenienza di quel danaro. Che era danaro della famiglia ricca, di cui si è detto».

«Pensiamo, però – prosegue – alla assurdità dell’accusa fiondata sul solo sospetto senza prova, un giudizio senza processo. Se è vero che storicamente la mafia divenne imprenditrice solo alla fine degli anni Ottanta, quale mafioso avrebbe accumulato quella fortuna negli anni Settanta? E con quali attività? Anche la fonte illecita quindi è stata individuata solo per la “intuizione” del Giudice, che si fonda sul sospetto e no sulla prova. Due miliardi e mezzo ricavati dalla mafia (quale mafia?) da attività illecite (quali attività?) e consegnate a Ciancio (perché a Ciancio e non ad altri Cavalieri più titolati di lui per “vicinanza” ad ambienti mafiosi?). Due miliardi e mezzo in un tempo il cui la benzina costava cento lire al litro e un impiegato guadagnava 250.000 lire al mese. Viene voglia di definire il sospetto del Tribunale un incredibile falso storico. Nonostante tutto, però, noi crediamo nel Giudice di appello». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA