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Il “destino” da reggente di Ciccio Napoli, le confessioni del boss nella sentenza “Sangue Blu”

La gup Chiara Di Dio Datola nelle motivazioni del verdetto inserisce uno stralcio della lettera scritta dal rampollo dei Ferrera "cavadduzzu"

Di Laura Distefano |

Francesco Napoli fino a fine settembre 2022 è stato il rappresentante provinciale della famiglia catanese di Cosa nostra. La gup Chiara Di Dio Datola non ha dubbi sul ruolo apicale che ha rivestito l’imputato chiave del processo Sangue Blu. La giudice lo ha messo nero su bianco nelle 296 pagine delle motivazioni della sentenza con cui ha condannato a 14 anni il rampollo della famiglia Ferrera (è infatti il nipote del defunto boss Giuseppe ‘u cavadduzzu).

La lettera di Ciccio Napoli

Napoli, nel corso delle udienze del rito abbreviato, ha consegnato una lettera in cui ha deciso di fare delle ammissioni. Ammissioni pesanti. Eppure quando scattarono le manette, due anni, negò ogni suo coinvolgimento con i Santapaola-Ercolano. La gup riporta nella sentenza uno degli stralci che ritiene più interessanti, anche se quelle parole non hanno avuto un peso specifico nel giudizio. Ciccio Napoli confessa di non aver mai rotto i legami con la famiglia mafiosa: «Durante tutta la carcerazione non ho interrotto la mia appartenenza, anzi, come riferito sempre da alcuni collaboratori di giustizia, mi sono occupato di rappresentare le istanze degli altri affiliati all’interno del carcere dove ero detenuto, questo sempre per i miei legami di parentela e per le capacità che mi venivano riconosciute». L’imputato ha anche accennato alle inchieste giornalistiche dove si ipotizzava la sua nomina a “capo”: «In prossimità della mia scarcerazione per fine pena, si era diffusa la voce che avrei assunto il ruolo di reggente, agli atti sono presenti intercettazioni in tal senso. Tale “voce” era stata oggetto di articoli di giornale». Napoli avrebbe voluto scappare, ma un provvedimento restrittivo lo avrebbe trattenuto a Catania. E questo non gli avrebbe permesso di sottrarsi alle richieste. Una sorta di destino per diritto di nascita. «Sta di fatto che – scrive il boss – al momento della mia scarcerazione avvertii molta pressione… la mia intenzione era quella di non accettare quel ruolo e anzi provare a interrompere ogni rapporto e provare a riconciliarmi con mia moglie e i miei figli. Il mio primo pensiero fu di allontanarmi dalla Sicilia. Purtroppo dovevo scontare un periodo di affidamento ai servizi sociali e quello è stato fatale. Non sono stato in grado di allontanarmi, non ho avuto la forza di oppormi al mio ineluttabile destino». L’epistola per Napoli sarebbe un modo anche per poter finalmente tagliare il cordone ombelicale con la mafia. Ma anche un modo per dire che è stato un capo diverso dagli altri, diplomazia e mai violenza: «Oggi trovo il coraggio di dire basta, di ammettere che ho sbagliato e che devo e voglio prendere le distanze da quel mondo. Voglio solo precisare che nel periodo della mia reggenza ho sempre cercato di evitare i contrasti e mettere una parola di buone senso, con l’intento di mantenere gli equilibri sia all’interno che all’esterno».

Le motivazioni del gup

Ma per la gup «l’ammissione di responsabilità di Napoli non apporta alcun ulteriore elemento al compendio probatorio in atti. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia si riscontrano reciprocamente nell’indicare Napoli quale reggente del clan Santapaola-Ercolano». Napoli è – come ha anticipato il superpentito Santo La Causa – «un uomo d’onore riservato», qualifica ristrettissima a pochi eletti. E che differenzia dall’essere un boss riservato come quello che è indicato dalla procura etnea come il suo erede e cioè Francesco Russo, arrestato il mese scorso dalla polizia nel blitz Ombra. Ma torniamo alle motivazioni del processo sangue Blu. Napoli è un rappresentante della famiglia Santapaola « riservato e accorto- scrive la gup – anche nelle sue relazioni interpersonali». L’imputato è«l’uomo di riferimento per il clan». La sua appartenenza a Cosa nostra è «oltremodo riscontrata, sul piano estrinseco, da numerose intercettazioni che confermano la perdurante affiliazione in costanza di detenzione (emblematiche le conversazioni che coinvolgevano, tra gli altri, Grazia Santapaola), il ruolo apicale di Napoli una volta scarcerato, emblematicamente raffigurato dalla vicenda che vedeva coinvolti i Cursoti con Carmelo Di Stefano, l’utilizzo dell’alter ego, ovvero Cristian Buffardeci, delegato a rappresentarlo con altri esponenti mafiosi anche in riunioni di particolare rilievo associativo, il carattere estremamente riservato delle sue relazioni con altri affiliati, una modalità di gestione delle comunicazioni al riparo da rischi e captazioni, la sua partecipazione, come vertice, a riunioni con altri sodali e con partecipi di clan avversari».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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