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Il caso del catanese Cosenza, pentito condannato per calunnia e ora fuori dal programma

Accusò falsamente un poliziotto. Si è in attesa della fissazione dell'appello. L'ex collaboratore ha impugnato la sentenza di primo grado.

Redazione La Sicilia

17 Marzo 2024, 14:50

giacomo cosenza

Catania. Lo Stato risponde alle bufale dei pentiti. Giacomo Cosenza è stato condannato a cinque anni per calunnia dal Tribunale di Catania. La sentenza è stata impugnata. Ma nonostante il verdetto risalga a un anno e mezzo fa, il processo d'appello non ha ancora una data d'inizio. Cosenza, che dopo la condanna è stato allontanato dal programma di protezione, accusò falsamente un poliziotto – uno dei più stimati della squadra mobile di Catania (come riconobbe la stessa difesa nell'arringa) – di essere colluso con un boss. Un boss che lo stesso ispettore aveva catturato da latitante. Le indagini avviate da quelle dichiarazioni, che furono acquisite in maniera “poco ortodossa” (come hanno ammesso gli stessi investigatori della Dia chiamati nel dibattimento), smontarono ogni tesi d'accusa. E la procura chiese il rinvio a giudizio del calunniatore per calunnia. Nel processo si costituì parte civile il poliziotto, parte offesa, e il Viminale.

Cosenza per difendersi parla di un suggeritore. Il poliziotto nella sua lunga testimonianza nel processo sottolinea di aver avuto sin da subito l’intima certezza che qualcuno stesse tramando contro di lui. Giacomo Cosenza diventò per la prima volta collaboratore di giustizia nel 2002. Aveva un breve passato nelle fila del clan Sciuto-Tigna di Catania. Dopo sette anni fu estromesso dal programma e rientrò in carcere. Nel 2011 è riammesso nel programma di protezione. Consegnò un pizzino con l'ordine di uccidere un magistrato. Da lì scatterà un arresto e un processo che si celebrò a Catania. Ma per associazione mafiosa. Se si fosse dovuto processare per il progetto, le carte sarebbero dovute andare a Messina per competenza. Ma così non fu.

Ed è solo nel 2013 che parlando del più e del meno con alcuni investigatori della Dia si fece il nome di un poliziotto. Non ci fu mai un riconoscimento fotografico. Venne ritenuto valido un cenno del capo verso una persona che stava entrando negli uffici della mobile una mattina di novembre. Quella persona fu indagata (e poi archiviata), intercettata e interrogata. Un interrogatorio parallelo: con accusato e accusatore sentiti nello stesso momento in due stanze diverse. I vertici della procura, fortificati da norme ed esperienza, capirono che erano davanti a una bufala. E infatti chiesero il rinvio a giudizio per calunnia di Cosenza.