«“Homo blanco bum-bum”», Vanni Calì racconta i suoi ventitré giorni ostaggio dei banditi ad Haiti

Di Andrea Lodato / 07 Luglio 2021

«Ehi, omo blanco, ehi. Noi a te… bum, bum, bum». Cosa passa per la testa di un uomo, un uomo di 74 anni, in buona salute, certo, ma in una situazione psicologica e fisica fragile, precaria, provata, nel sentirsi ripetere giorno e notte questa frase?

 

«Ehi, omo blanco, ehi. Noi a te… bum, bum, bum». Cosa passava per la testa di Vanni Calì, l’ingegnere catanese rapito ad Haiti e tenuto prigioniero per 23 giorni, gettato a terra, mani e piedi legati, poco cibo, poca acqua, nessuna igiene, mentre quei ragazzotti della banda che lo avevano sequestrato lo deridevano, gli davano del “blanco” per offenderlo, per rovesciare su di lui quel razzismo di ritorno che è una delle leve su cui poggia da quelle parti la controffensiva sociale, culturale, ideologica, disperata o semplicemente criminale, di una popolazione ridotta sistematicamente alla fame?
Eccolo Vanni Calì, ecco il racconto di 23 giorni di paura, di terrore, di ansie, di incertezze. Ventitré giorni in una prigione fatta da lamiere bruciate dal sole, cartoni come materassi a terra, carcerieri feroci e impacciati, dopo 4 anni di lavoro, di socializzazione (quella possibile), di connessioni umane con Haiti e la sua popolazione.
«Ero ad Haiti dall’agosto del 2017 – ricorda – e sino a sei mesi fa non c’era quella paura, quel timore dei sequestri di persona a scopo estorsivo. Certo, la situazione è sempre stata difficile ad Haiti, la povertà terribile, la violenza pane quotidiano, ma gli stranieri, soprattutto quelli considerati in qualche modo portatori di aiuti, di imprese, di lavoro, ci eravamo sempre sentiti protetti. Poi è esploso il caso dei religiosi francesi rapiti e da lì è cambiato tutto. La paura, a quel punto, c’era, tanto che proprio il giorno del mio rapimento, avrei dovuto incontrare alcune persone incaricate di occuparsi della mia sicurezza. Non abbiamo fatto in tempo».

E’ cambiato, nel giro di sei mesi più o meno, che dalla capitale, Port-au-Prince, al più piccolo villaggio del martoriato Paese, l’evasione di massa da alcune carceri di boss e piccoli delinquenti, ha dato il colpo di grazia a quel minimo di garanzie che esistevano e a quella ormai impercettibile democrazia maciullata da tempo. E nella rete è finito l’ingegnere “blanco”, rapito mentre andava a lavorare nel cantiere che dirigeva come capo missione dell’impresa Bonifica spa. Rapito. Sequestrato. Segregato. 23 giorni 23.

 

 

«Durissimi. Mi hanno scaraventato a terra in quella prigione improvvisata, con mani e piedi legati con fettucce strette e taglienti. E i rapitori stavano lì, a girarmi intorno, giocando con le pistole, puntandomele alla testa. E lì recitavano quel “blanco… bum, bum, bum…”, continuamente, per farmi paura. Come ho resistito? Già, come ho resistito, me lo sono domandato spesso in questi giorni, dopo il ritorno a casa. Ho resistito perché ad un certo punto ho capito che dovevo salvare innanzitutto la mente, prima del corpo. Tutto comincia nella mente e sono riuscito a produrre uno sforzo straordinario che mi ha permesso di superare momenti drammatici. Pensavo a mia moglie, Sandra. Avrei potuto, nella mia disperazione, ricostruire l’immagine di lei affranta, angosciata per la mia situazione. Invece la rivedevo nei nostri momenti sereni, nelle cose belle, nella felicità condivisa. E così rivedevo Andrea e Alessia, i miei figli. Ho resistito perché la mente ha resistito, mi ha dato forza, stimoli, motivazioni. E anche perché, sembrerà strano, ma in quella casetta di lamiera ho trovato anche segnali di umanità».

Umanità. Il fatto è che Vanni Calì era maltrattato davvero in quella prigione, persino più di quanto e di come non lo fossero altri sequestrati in attesa di qualcuno che pagasse un riscatto. E tra questi anche una ragazza, forse una ragazzina.

 

«Forse – dice Calì – questa sconosciuta ragazzina mi ha salvato la vita. Un giorno mi sono sentito male, ho avuto un calo di zuccheri. Ho chiesto ai carcerieri di darmi qualcosa di dolce, del cibo, per riprendermi. Nulla, solo un po’ acqua. Quando mi hanno riportato nella cella, però, si è avvicinata quella ragazzina, ha visto che stavo ancora male, e mi ha dato della zuppa, la sua, dentro cui c’era qualcosa di zuccherato. Ho mangiato quella zuppa e mi sono ripreso quasi subito. Quante volte dovrò dire grazie a quella sconosciuta ragazza?».

Poi è finita. Mentre Vanni Calì aspettava nella prigione e nel silenzio, arriva una telefonata, gli passano un cellulare: «Chi parla?». «Sono l’ingegnere Calì?». «Ingegnere, come sta?». «Insomma, sono qua, legato mani e piedi, a terra da settimane. Che fate? Che succede?». «Ingegnere tranquillo, sta finendo».

«Ed è davvero finita – racconta ancora Calì – dopo quella telefonata la situazione si è sbloccata. Il giorno dopo mi hanno fatto salire su una macchina, portato da qualche parte e fatto scendere. Lì ho incontrato i miei liberatori, quelli che ho definito i miei angeli custodi. Ero libero, che felicità. E la notte ho provato a ricordare la preghiera dell’Angelo custode, per dedicarla ai miei soccorritori. Così come ho pensato allo sforzo e al lavoro della Farnesina, dei servizi, dell’intelligence, in un’operazione resa difficile dalla situazione di incertezza di Haiti».

Già, gli angeli custodi. Che lo hanno portato all’aeroporto, aiutato a salire su quel volo. Riportato in Italia. 
E lasciando Port-au-Prince, guardando dall’alto ancora una volta quella città, quelle favelas, quel Paese martoriato dal terremoto, dall’uragano, dall’egoismo e dalle ipocrisie dei buoni e dalle dittature dei cattivi, che cosa avrà pensato? Perché abbiamo lasciato che Haiti, come altri pezzi di mondo del resto, siano stato depredati, sfruttati, rasi al suolo socialmente e moralmente?

«Me lo sono chiesto, non ho trovato una risposta. E’ incredibile, Haiti avrebbe tutte le condizioni per essere un Paese normale, con una economia fondata sull’agricoltura, sul suo riso, ma vive in una situazione di costante dramma, con le famiglie che insegnano ai ragazzi che per sopravvivere serve la violenza. E la violenza, fa male dirlo, è diventata, o è scambiata oggi, per la base della democrazia. Che dolore lasciare quel Paese così, dopo 4 anni».
Il ritorno a casa, da Sandra, Andrea, Alessia. Ma lo sa, Vanni, che mentre si muoveva la diplomazia per trovare una soluzione, mentre la Farnesina lavorava per salvarlo, un’altra mobilitazione era scattata. Solo emotiva, partecipativa, d’affetto, di stima, di attesa. Ma pur sempre una mobilitazione.
«Lo so, me lo hanno detto. Tanti amici, tanti conoscenti, tanta gente so che ha vissuto con ansia quei giorni, cercando di consolare la mia famiglia. E hanno gioito per la mia liberazione. E’ bello saperlo, e penso che, adesso che sono qui lo posso dire, questa terribile esperienza mi ha dato nuove energie, nuove o ulteriori certezze su quel che ho fatto nel corso della mia vita».

Vanni Calì ci ha sempre scherzato su, nella sua storia professionale: «Cosa farò da grande non lo so», diceva quando faceva l’assessore nella Giunta provinciale di Nello Musumeci. E poi lo ripeteva quando faceva il dirigente amministrativo e quando coordinava gli interventi sull’Etna per domare una delle tante eruzioni. E quando a 70 anni gli chiesero di andare ad Haiti, ripetè: «Vado, ma chissà cosa farò da grande».

Ora Vanni cosa farà da grande non lo sa ancora, tanto per cambiare. Ma sa, di certo, cosa non farà. «L’ho promesso a Sandra e ai ragazzi. Non me ne vado più, davvero. Fermarmi no, anche perché mi sento bene, in forma. Ma non li lascerò più, questo è certo».

 

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Pubblicato da:
Fabio Russello
Tag: ingegnere catanese rapito haiti intervista vanni calì vanni calì