EMOZIONI
È presto, prestissimo. È tardi, tardissimo. Tutto è relativo di fronte a Sant’Agata: il racconto di un giorno di festa
L'iperbole della Catania di questi giorni, richiamata già all’Aurora dall’arcivescovo Renna a occuparsi dei “santi della porta accanto”
È presto, prestissimo, è tardi, tardissimo. Tutto è relativo di fronte all'assoluto della festa di Sant'Agata, all'iperbole della Catania di questi giorni, richiamata già all’Aurora dall’arcivescovo Renna a occuparsi dei “santi della porta accanto”: i precari, gli onesti, chi abita nelle periferie senza servizi. Quest’anno la festa deve essere per loro.
È presto, prestissimo: scendendo in città dal Lungomare, appena un paio di ragazzi reduci da apericena e “serate” assortite che si mantengono leggeri al carrozzone dei panini. È tardi, tardissimo: alle 4,30 la Cattedrale è gremita e lo è da due ore, perché i portoni saggiamente vengono aperti prima, evitando l’effetto corrida di anni fa.
È presto, prestissimo, è tardi, tardissimo. Tutto è relativo di fronte all'assoluto della festa di Sant'Agata, all'iperbole della Catania di questi giorni, alla parte di città fieramente più devota, quella che saluta già alla Messa dell'Aurora il busto reliquiario, senza attendere che la processione passi dove è più comodo.
«Talia che bedda», sussurra lui, devoto, assiso subito sotto l'altare a lei, in borghese ma totalmente rapita dall'occasione, dall’atmosfera, dalla solennità che anestetizza gli eccessi della festa popolare. Per dire: a un certo punto, mentre già si annuncia l'apertura della “cameretta” e le autorità sono sedute sugli scranni del presbiterio, c’è come un vuoto nella recita del rosario, ed è coperto da un silenzio assordante, soltanto qualche fazzoletto che sventola quasi a “chiamare” la Patrona. Brividi. Groppo in gola. Emozione.
Emozionante già soltanto sapere che Agata ha fatto pure questo miracolo, sperando che si riesca, nel suo nome, ad accorciare le distanze tra le tante città che fanno Catania, a suturare le ferite che dividono quartieri alti e periferie. Qui e ora, intanto, il sacco e la scuzzetta valgono più di divise, stellette, mostrine, grisaglie, cravatte, tailleur e cappotti impellicciati. Di fronte alla fede siamo tutti uguali, non c’è ostentazione di potere ammoniva alla vigilia l’arcivescovo metropolita Luigi Renna. Il primo a non ostentare è lui, al suo debutto con il 5 Febbraio, ma già molto addentro le cose della città. Non ha toni obliqui semmai diretti, sembra pacioso ma è tutt'altro che accomodante, sereno e sorridente eppure fermo e rigoroso. Soprattutto, pastore prima che prelato. Percepisce il sostanziale vuoto che caratterizza il momento storico di Catania – ma è una condizione generale del Paese, che manca di una nuova classe dirigente dopo aver gettato il bambino con l'acqua sporca della vecchia – e lo riempie con messaggi netti.
Ieri ha colto l'occasione della solennità dell'Aurora, prima che cominciasse la Messa e senza i paramenti, per dire alla folla di genitori presenti che è bello insegnare ai figli il significato dell’indossare il sacco ma è altrettanto importante educare i figli ad andare a scuola, a portare quotidianamente quell'altro sacco, laico, che fu il nostro grembiule.
E poi nell'omelia ha citato tre esempi di martiri dei nostri tempi: padre Pino Puglisi, che fu fedele a Dio e rinnegò la mafia, Rosario Livatino, che disse no al compromesso sempre con la mafia e mantenne integri l'impegno civile e la Fede, e Biagio Conte, che lasciò una vita agiata per mettersi a servizio degli ultimi e stare con loro fino alla morte. Mons. Renna cita i “santi della porta accanto”, concetto caro a Papa Francesco, ed elenca coloro che ogni giorno portano la Croce: per esempio i precari che accettano un lavoro malpagato ma onesto, coloro che rifuggono dal guadagno facile, oppure gli abitanti delle periferie di «un Comune da molti anni in dissesto finanziario» che non ricevono servizi, che s'affacciano su «strade illuminate dalla luna».
La cifra di questa festa, allora, sono i “santi della porta accanto”, i più vicini ad Agata perché sono i martiri dei nostri giorni, laddove il martirio, però, spesso è pure inconsapevole: il martire sa di affrontare una battaglia, altrimenti è vittima di un sistema malato.
Una sorta – certo non casuale – di memorandum per chi governa e per chi amministrerà, cui mons. Renna ricorda il paradigma del buon servitore: impegno, legalità, trasparenza. «Sappiate perdere la vita come Agata, portando ogni giorno la croce di chi rifiuta il compromesso e fa crescere l’onestà. Se voi porterete bene la vostra croce, la città risorgerà». Ma dal pulpito arriva anche uno sprone per le persone perbene e capaci ma silenti, magari soffocate dalla società civile autoproclamatasi tale. «Noi pensiamo spesso di salvare la nostra esistenza chiudendoci in noi stessi, alzando barriere nei confronti degli altri, calcolando vantaggi svantaggi in termini umani, usando anche la forza e forse anche la violenza. Noi tante volte non vogliamo rischiare di portare la croce dietro Cristo». Croce che bisogna portare «ogni giorno». Anche per lenire le sofferenze dei malati, per aiutare i detenuti a farsi un’altra e diversa vita.
Gli applausi sono convinti, come alto è il coro a una voce che intona l’“Inno a Sant’Agata”. Quando il busto reliquiario viene portato a spalla verso il sagrato per essere posato sul fercolo, la luce del sole “ridisegna” la bifera alla sinistra dell’altare. Una suggestione. Il miracolo atteso è la città che si ridesta. Da qui, da queste parole si riparte. Finalmente.
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