Catania
D’Urso, il catanese icona trumpista: «Hanno truffato le elezioni in Usa»
Catania – «Il professore non c’è», rispondono al citofono dello studio di un palazzo antico, in viale Vittorio Emanuele quasi ad angolo con piazza Martiri della Libertà. La madre di tutti i complotti, fra le scintille l’assalto degli ultras filo-trumpiani a Capitol Hill a Washington lo scorso 6 gennaio, cova in questo cratere sotto il Vulcano.
Lui, «il professore», è come scomparso nel nulla. Al cellulare, spento da giorni, attacca la segreteria. Ma i messaggi (e le chiamate) di WhatsApp gli arrivano: nessuna risposta. Chi l’ha sentito, poco prima di Natale, racconta che l’interlocutore gli ha risposto dicendo di trovarsi «a Roma, dove mi trattengo qualche giorno di più per una cosa importante». Ma quest’anno, sotto l’albero degli amici più affezionati, sono mancati i suoi regali: i dolcetti di fichi e cioccolato e, soprattutto, la mozzarella di Battipaglia che andava a comprare, tornando in auto dalla Capitale, personalmente «nel caseificio dove le bufale sono allevate ascoltando musica classica».
Dicono che questo immobile sia tutto suo e che dentro custodisca «un deposito di preziosissimi mobili d’epoca e di opere d’arte di valore inestimabile, da poterci arredare dieci case». È qui, a Catania, che c’è lo studio legale dell’avvocato amministrativista Alfio D’Urso, 69 anni, l’uomo che dice di avere un affidavit, una dichiarazione giurata, di un ex funzionario della Leonardo Spa, in cui si svela la truffa voti elettronici spostati da Donald Trump a Joe Biden.
Il testimone di D’Urso è l’ex capo del Dipartimento Informatico di Leonardo, arrestato perché accusato dalla Procura di Napoli di manipolazione dei dati tecnologici e impianto di virus nei principali computer di Leonardo Spa nel dicembre 2020. Il suo nome è Arturo D’Elia. È lui che avrebbe raccontato all’avvocato catanese di aver «trattato», su indicazione di persone statunitensi che lavorano all’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma, i dati delle elezioni del 3 novembre 2020 trasferendo voti da Trump a Biden. Il tutto sfruttando le capacità di crittografia della guerra informatica di livello militare per trasmettere le preferenze tramite un satellite militare dalla Torre del Fucino a Francoforte, in Germania. D’Urso ha raccontato la storia in un video di meno di un minuto in cui, leggendo il testo in un inglese maccheronico, sostiene che la sua fonte, Arturo D’Elia (in carcere dal 5 dicembre perché accusato di avere rubato dati e informazioni sensibili a Leonardo), sostiene di avere le prove di quello che del resto l’ormai quasi ex presidente Usa ripete da settimane e che ha spinto i suoi fan ad assaltare i palazzi del governo. Un video ormai cult nei circoli dell’ultradestra trumpiana e dei complottisti di Qanon e del deep state che sostengono la tesi delle elezioni scippate a The Donald.
L’avvocato catanese sostiene che D’Elia sarebbe pure disposto a parlare e consegnare il backup dei dati originali del voto Usa «in cambio di protezione per se stesso e per la sua famiglia». La prima falla è che Nicola Napoliello, il legale del tecnico arrestato, intervistato da La Stampa, smentisce a tutto tondo: «Non esiste alcun affidavit, non è vero che ci siano dati rubati, ed escludo che D’Elia abbia informazioni su quanto accaduto». Ma, anche se fosse vero che D’Elia abbia fatto rivelazioni all’avvocato D’Urso, la ricostruzione presenta altre incongruenze. Come ad esempio il riferimento al satellite (civile e non militare) in questione e al fatto che D’Elia lavorasse, ma fino al 2018, a Pomigliano d’Arco e non nel sito di Pescara citato nell’atto. La tesi dell’ItalyGate ha fatto il giro del mondo anche perché rilanciata ad esempio da Sidney Powell, avvocata di Trump, tra i falchi del suo collegio difensivo. Lo stesso tycoon sarebbe al corrente della teoria di D’Urso.
Ma chi è davvero D’Urso? A Catania, al netto di alcune descrizioni macchiettistiche venute fuori sui media in queste ore, lo definiscono «un professionista serio». Un giurista molto quotato, che comincia la sua carriera accademica a Catania, come assistente di Diritto privato del professore Mario Ricca, prima di trasferirsi a Catanzaro, dove prende la cattedra di associato in Diritto del lavoro. I suoi colleghi lo definiscono «molto preparato, con tesi talvolta spiazzanti, ma sempre frutto di studio e di una fantasia giuridica fuori dal comune». Ma D’Urso ha anche una vita politica. Che, da giovane universitario democristiano con simpatie liberali, lo vede dapprima condizionato dalla militanza della moglie (Santuzza Gennaro, conosciuta e stimatissima a Catania) nel Psi di Benito Craxi, con un forte rapporto con l’ex ministro Salvo Andò.
E poi la folgorazione per l’autonomismo di Raffaele Lombardo. D’Urso è fra i saggi che scrivono l’atto fondativo del Mpa e diventa subito uno dei garanti del movimento, oltre che un punto di riferimento (ideologico, ma anche operativo per affari legali e contatti con certi salotti) per il leader. Lombardo, ad esempio, gli oltre a infilarlo nel cda della Fondazione BdS, gli affida il compito delicatissimo di gestire per suo conto la “guerra dei cieli” che si combatte a Fontanarossa fra Ivan Lo Bello e Pietro Agen. L’avvocato-professore resta a lungo (fino al 2012) nel Cda di Sac, società in cui sarà fra i consulenti legali anche con Nico Torrisi amministratore delegato. In aeroporto lo ricordano per «la genialità mefistofelica, ma in senso buono, cioè per la capacità di vincere le cause guardando i fatti da un punto di vista mai scontato», oltre che per una «chiara visione anticomunista della vita e del mondo».
Ma Fontanarossa, per D’Urso, è anche fonte di guai giudiziari. L’ultimo è un’inchiesta per aggiotaggio, archiviata nel 2016 dal gip di Catania, Sebastiano Di Giacomo Barbagallo, su richiesta dei pm Alessia Natale e Giuseppe Sturiale. Nel registro degli indagati, assieme a D’Urso e allo stesso Torrisi, anche Fausto Piazza, Giovanni Spampinato e Luciana Giammanco (ex commissari di Camera di Commercio e Asi nominati da Lombardo), Giuseppe Giannone (ex presidente Sac) e Vito Riggio (ex presidente Enac). Il fascicolo si apre dopo da un duplice esposto, del 2013 e 2014, con una triplice firma in calce: quelle di Lo Bello (all’epoca presidente nazionale Unioncamere), Enzo Taverniti e Gaetano Mancini, in quegli anni rispettivamente presidente e ad Sac. Negli esposti, sintetizzano con efficacia i pm, si ipotizza che «nel recente passato erano state diffuse tramite organi di informazione notizie (false, ma dotate di particolare credibilità) relative al valore di Sac, idonee a condizionarne in negativo il valore delle quote». Negli atti si tira pesantemente in ballo Riggio. L’ad Mancini afferma che «non mi sembra normale che un organo pubblico cerchi di caldeggiare la privatizzazione, organizzando un incontro con un privato e diffondendo delle notizie di stampa». Il riferimento è a una riunione del dicembre 2011. Con Riggio c’erano Lombardo e l’allora assessore Pier Carmelo Russo. D’Urso, in quel contesto, è l’uomo forte dell’Mpa nella “cabina di pilotaggio” di Fontanarossa. Davanti a loro Roberto Naldi, braccio destro di Eduardo Eurnekian, imprenditore argentino, ottuagenario molto amico degli amici di Matteo Renzi, oltre che proprietario di quote negli aeroporti di Firenze, Pisa e Trapani. Ma l’inchiesta viene archiviate, perché il gip ritiene che i fatti denunciati «non abbiano influito sulla valutazione delle azioni della Sac».
Ma D’Urso, da lombardiano di sottogoverno, finisce anche in un processo. Con l’accusa di abuso d’ufficio per l’affidamento “in house” nel 2007 del servizio di pulizia dello scalo aereo di Catania alla Pubbliservizi della Provincia. Il professore ne esce dapprima prosciolto per sopraggiunti termini di prescrizione, assieme allo stesso Lombardo e ai vertici di Sac (oltre al professore “trumpiano”, anche Stefano Maria Ridolfo, Michele Sineri e Sebastiano Paladino) e di Publiservizi (Giuseppe Gitto e Giacomo Di Blasi) dell’epoca. Poi, su ricorso di Ridolfo e Paladino, la Cassazione annulla nel merito con sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, infine applicata per estensione dal Tribunale di Catania sugli altri imputati, compresi l’ex governatore e il suo fedelissimo ideologo-legale-adepto.
Ma D’Urso resta fino a dicembre scorso con entrambi i piedi dentro Pubbliservizi, con la carica di da amministratore unico. Sempre con un profilo bassissimo: zero eventi mediatici, nemmeno un comunicato stampa come eredità della sua invisibile (ma solo all’esterno) presenza. Silenzioso, garbato e operativo. Sempre da lombardiano di ferro, con un rapporto tanto forte da finire nella richiesta di misura di prevenzione patrimoniale, nel 2010, in un’informativa della guardia di finanza che, all’inizio dei suoi guai giudiziari, contestava a Lombardo la provenienza di alcuni beni, fra cui dipinti, opere d’arte e una fantomatica barca, di cui l’ex presidente della Regione smentisce ogni attribuzione ricordando che «amo la campagna e soffro il mal di mare».
L’altro legame, più suggestivo, è fra D’Urso e la Link University di Malta. La stessa del professor Joseph Mifsud (l’uomo del RussiaGate, ricercato da polizia e servizi segreti di tutto il mondo) e dell’altro consigliere di Trump, George Papadoupolos, ma soprattutto dell’ex ministro Enzo Scotti, padre putativo del grillismo anche di tendenza contiana. La Link University ha pure una sua dépendance etnea, caminetto accademico nel quale si incontrano, spesso alla presenza dell’ex ministro Scotti (prestigioso iscritto all’Mpa di Lombardo dal 2007 al 2010), ex sindaci ed ex paladini dell’antimafia, ma anche imprenditori e magistrati. E in questo contesto D’Urso, senza mai strafare, c’è. Con un posto in prima fila e «un rapporto solido con quel mondo», dicono a Catania, dove si parla pure di consulenze di D’Urso per Finmeccanica, antenata di Leonardo. E così si scopre che quel «professore mite e cordiale, dal profilo bassissimo nonostante le suo conoscenze ad altissimo livello» può essere molto di più che un semplice “liberale” marca Liotru, magari caduto, per eccesso di passione politica, nella trappola dell’insostenibile leggerezza delle bufale. Non quelle melomani della mozzarella di Battipaglia, per intenderci. C’è pure, fra i suoi amici, chi teme per la sua vita.
Ma intanto #ItalyDidIt (l’Italia lo ha fatto) è l’hashtag che spopola su Twitter e sui social degli ultras trumpiani che, ça va sans dire, ha anche coinvolto l’ex premier Matteo Renzi come protagonista del complotto insieme con Barack Obama (e, udite, con Sergio Mattarella «agente dei servizi Usa»).Manca solo Papa Francesco. E poi ci sono tutti. O quasi. Ma ora manca proprio D’Urso. Introvabile.
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