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Don Rodolfo Di Mauro: «San Cristoforo è più sicuro di altri quartieri»

Di Salvatore Scalia |

Don Rodolfo ha appena finito di concelebrare col parroco la messa pomeridiana davanti a una decina di fedeli. Il passo è fermo, la parola sicura. Tra le infinite cose da raccontare su generazioni di ragazzi, il discorso scivola inevitabilmente su quelli divenuti famosi come criminali. I mafiosi di San Cristoforo li ha conosciuti tutti, ne sa ricostruire la genealogia, gli atti, gli arresti, le condanne. In origine ci fu Natale da Praia… i Santapaola, i Cavadduzzu e gli Ercolano erano tutti imparentati… il papà dei Ferrera, i Cavaduzzu, aveva la baracca dell’ortofrutta in piazza Alcalà, con la giardinetta andava a fare la spesa da loro. Il padre dei Mazzei, i Carcagnusi, è condannato al 41 bis…

«Mandavano i figli da noi sperando di sottrarli al loro mondo, ma ha prevalso la scuola del rubare. Si diceva che a casa avessero un manichino rivestito di campanelli per imparare a sfilare delicatamente i portafogli. Mi rispettavano, hanno preso anche schiaffi ma senza lamentarsi coi genitori per paura di buscarne altri. Oggi finirei in galera».

Lei li ha visti crescere, ne conosce la psicologia, sa cos’è la mafia.

«La vera mafia l’ho conosciuta al quartiere Ballarò a Palermo. Prima dei corleonesi di Riina era altra cosa: il capo era il medico Navarra. Qui esistono gruppi di delinquenti. Anche Pino Arlacchi nel suo libro spiega che sono stati i fratelli Calderone a importarla a Catania e che Santapaola ha incontrato i capi nelle Madonie. Ora ci sono solo spacciatori, ma non ladri. San Cristoforo è più sicuro di altri quartieri. Tra l’altro, il capo dei Carcagnusi ha proibito di spacciare davanti all’Oratorio. La moglie veniva a messa».

Manca l’animo di contraddire tanta indulgenza, l’umanità che trascende la legge, la pietà del sacerdote che nell’assassino vede la pecorella smarrita.

«Io ho sempre applicato la regola di Don Bosco: fatti amare se vuoi essere ubbidito, per il resto lascia fare a patto che non si tratti di peccati mortali».

I tempi lunghi di un secolo di vita attenuano anche le tinte del malessere sociale.

«Nel dopoguerra ho visto ragazzi affamati fare la fila per un pasto sotto la sorveglianza dei carabinieri, oggi vedo bambini obesi che mangiano continuamente. Temo la miseria che è privazione di tutto, ma non esiste più perché ci si arrangia in mille modi, si fa lavoro nero o si spaccia. La povertà non mi fa paura, io ho fatto voto di povertà».

Come si conquista il rispetto a San Cristoforo?

«Con la capacità di non farsi intimidire. Una volta un tale mi minacciò: se non fosse per quel collare bianco che porta… Me lo tolsi subito e replicai: a disposizione…».

Don Rodolfo ha accudito tante esistenze in bilico, il più delle volte l’insegnamento di don Bosco ha avuto successo, altre ha dovuto soccombere ad un logica distorta ma inesorabile. Basti un aneddoto. «Erano le undici di una sera d’estate, già a letto con la finestra aperta udivo i discorsi giù nella piazza. Tanu a scecca, uscito dalla putìa, si vantò: me figghiu è ladru bonu di banchi, no sti cessi peri peri…».

All’opposto si staglia la storia edificante del nipote del Carcagnusu che studia da prete a Messina. Altre biografie esemplari sono sbandierate per smentire l’affermazione di quel procuratore della Repubblica secondo cui a San Cristoforo si può diventare solo delinquenti: docenti d’università come Alfredo Petralia, medici, ingegneri, attori come Gilberto Idonea, tipografi come Salvatore Caliò, presidente dell’Unione ex allievi che si occupa di assistenza sociale e che ha istituito il premio Quartiere vivo assegnato, in vista dei cento anni, anche a don Rodolfo.

«Noi abbiamo contribuito all’elevazione morale e sociale di molti ragazzi, il problema è che, raggiunto il traguardo, lasciano il quartiere».

L’oratorio e la parrocchia somigliano a un’oasi intorno a cui fervono traffici leciti e illeciti, ma nel cortile il candore dei volti dei ragazzi e delle ragazze, gli allegri schiamazzi, le pallonate, qualche madre che qui è cresciuta e accompagna i figli, l’interruzione per la preghiera, danno un senso di pace, di tregua, di speranza. Tra queste mura non si respira l’aria pesante della trama dello spaccio; sembra lontana la possibilità di una caduta nel vortice di un destino infausto. Eppure non puoi ignorare quanti giovani nelle strade adiacenti ti offrono la roba e finiscono nelle retate periodiche di polizia e carabinieri. Ogni vita perduta è una pena, una sconfitta per i salesiani, per la nostra coscienza, la democrazia e lo Stato.

Don Di Mauro scandisce la sua biografia legandola ai grande eventi di un secolo di storia. Nacque il 18 maggio 1918, durante la Grande guerra, a Militello Val di Catania, dove il padre scalpellino catanese lavorava alla costruzione dei ponti della ferrovia tra Catania e Caltagirone. Durante il fascismo fu balilla e poi avanguardista. La crisi del ’29 lo costrinse a sospendere gli studi, ripresi grazie a un fratello carabiniere che lo mantenne nell’Istituto salesiano di Pedara. Il liceo e il noviziato lo fece a San Gregorio. Conseguita l’abilitazione magistrale insegnò a Marsala, dove, durante la seconda guerra mondiale, si salvò per caso da un bombardamento che uccise tre confratelli e alcuni ragazzi.

Alla Salette, di cui divenne parroco nel ’68, don Di Mauro è arrivato nel 1947. Fondò l’oratorio con don Casales, che creò la banda musicale, e con don Bonomo che si occupava dei figli dei fumirari, i raccoglitori di sterco venduto per concimare i campi. Allora regnava la miseria ma c’erano anche volontà di fare e tante attività produttive, fabbriche, operai, fabbri, falegnami, via della Concordia era il cuore pulsante di un vivace tessuto economico. Il lavoro offriva la possibilità di riscatto da povertà ed emarginazione, persino i fumirari divennero spazzini comunali. Poi è cominciato un lento, inesorabile declino.

«Sfamavamo ottocento ragazzi. Si cucinava in un pentolone in cui si rimescolava con un bastone».

La fase dal ’45 al ’47 è legata agli aiuti americani del Piano Marshall e, in collaborazione col barone Scammacca, alla nascita della Spiga, Società per i giovani affamati.

«Affamati ma non abbandonati, come è avvenuto dopo la legge sul divorzio, con i tanti ragazzi che ci venivano affidati dai Tribunali».

In quegli anni San Cristoforo era luogo di scontro coi comunisti.

«Mentre noi facevamo le scuole serali, nei loro comizi in via Feliciotti proclamavano che ci avrebbero cacciati per trasformare l’oratorio in una casa del popolo. Minacciavano di impiccare a un lampione il parroco degli Angeli Custodi, Santo D’Arrigo. Anch’io, militante dei comitati civici di Luigi Gedda, facevo comizi. Contro l’astensionismo, appiccicavamo manifesti con una grossa testa d’asino e la scritta Io non voto. Dopo la sconfitta del ’48, uno di quei comunisti emigrò in Jugoslavia».

I capi democristiani, da Aldisio a Scelba, si facevano vedere spesso e s’impegnavano a fare arrivare finanziamenti. Il presidente della Regione Alessi, che aveva due fratelli salesiani, era di casa, così come Angelo Rosano.

«Ora non ci occupiamo più di politica ed è un bene, ma durante la Guerra fredda ci dovevamo difendere dal pericolo comunista».

Soddisfatto del suo secolo di vita?

«Devo ringraziare il Signore per ciò che ho fatto, sono passato dai lumi a petrolio all’era digitale. A Militello la prima radio l’ascoltavamo a casa di due maestre signorine. Poiché era grande come un armadio, un contadino controllò se dietro non ci fosse qualcuno che parlava».

Tra le leggende della sua vita si racconta che si è ammalato una sola volta, nel 1945.

«Dovendo due salesiani andare uno a Mirabella e l’altro a Grammichele, il direttore di Pedara mi propose di approfittarne per visitare la famiglia. Partimmo con un triciclo motorizzato con le sedie sul cassone. Mi venne la febbre a 40. Quando ripassarono non potei seguirli. Sospettarono che fingessi per restare in famiglia. La malattia mi durò 15 giorni, poi mio cognato, che aveva una grossa moto, mi accompagnò. Da allora ho avuto solo qualche raffreddore. Non so cosa sia il mal di testa».

Resta sordo alla parola futuro, si limita a dire: «Ogni giorno che passa è un giorno più». E conclude: «Io alla Salette ho dato e ricevuto molto, e soprattutto ho imparato a non avere paura di niente, neanche della morte».

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