Catania
Divorzio, mantenimento soltanto se lei dà prova di non poter lavorare
Catania – La Corte d’Appello di Catania, nell’ambito di una causa di divorzio, con una sentenza che dirime ormai completamente ogni dubbio interpretativo, introduce come inderogabile il “Principio di autoresponsabilità economica” – già sancito dalla Cassazione – ritenendolo l’unico valido e applicabile alla luce degli attuali mutamenti economico-sociali che, tra l’altro, non creano più barriere alle donne nel mondo del lavoro, cosicché – e questa è una novità dei giudici catanesi – “l’onere di provare la mancanza di adeguati mezzi di sostentamento e dei motivi oggettivi per poterseli procurare – sostiene la Corte d’Appello – grava sulla moglie che dovrà provare l’impossibilita lamentata”.
In parole povere, per ottenere un importo a titolo di mantenimento, dovrà provare che non riesce a trovare un lavoro e, in ogni caso, l’inesistenza di altre rendite, finanziarie o da immobili, che possano sostituire i redditi da mancata occupazione. La nota moralizzatrice è di non poco conto: le mogli davvero bisognose e impossibilitate realmente a lavorare continueranno a percepire l’assegno di mantenimento, ma tutte coloro che anche solo potenzialmente sono abili al lavoro non percepiranno più nulla dall’ex coniuge.
E così, dunque, si fa un altro passo avanti per cancellare quarant’anni di privilegi derivanti dalla legge sul divorzio. Nata dopo un lungo e sofferto iter parlamentare, passata anche alla prova di un referendum popolare che disse no all’abrogazione, questa legge ha mostrato tutta la sua fragilità al momento della reale applicazione. L’Italia, si sa, è il Paese dei compromessi e dunque alla responsabilità di emanare norme imperative il legislatore ha talvolta preferito leggi poco chiare che lasciassero il peso interpretativo e applicativo alla magistratura.
Ma facciamo un passo indietro. All’origine la legge prevedeva dei punti cardine in aiuto alle famiglie in procinto di disgregarsi : il tentativo di conciliazione ad opera del magistrato che in pochi minuti avrebbe dovuto ricomporre crisi familiari covate negli anni, l’affidamento della prole a uno dei due coniugi – norma ormai sostituita dall’affido congiunto – e la regolamentazione delle disposizioni economiche, e qui casca l’asino. Quarant’anni fa c’era ancora la visione (oggi diremmo anacronistica) del capofamiglia che lavorava e portava a casa lo stipendio e della moglie casalinga che provvedeva alla crescita della prole, dunque coniuge debole per la quale, nel caso di separazione, si sarebbero dovuti approntare opportuni accorgimenti legislativi affinché alla stessa potesse essere garantita la finanza necessaria per poter vivere.
Questo nobile istituto, che poggiava le fondamenta sul parametro del tenore di vita e della naturale inidoneità – incredibile dictu – della donna al lavoro, ha però dato luogo ad abusi di ogni genere facendo nascere la cosiddetta “rendita coniugale”, ovvero una rendita che la (ormai ex) moglie ottiene in conseguenza della separazione approfittando di interpretazioni normative che allargano le maglie delle quantificazioni economiche in caso di separazione. Infatti, se da un lato il parametro del mantenimento uguale a garantire “il tenore di vita in costanza di matrimonio” creava situazioni assurde in cui i mariti vedevano azzerare le proprie risorse economiche a favore dell’ex consorte, dall’altro questa non aveva convenienza economica a lavorare poiché poteva correre il rischio di faticare per percepire meno del mantenimento che, se disoccupata, doveva garantirle l’ex marito. La conseguenza di tali distorsioni interpretative è stato l’impoverimento di coloro i quali non solo dovevano trovarsi una nuova casa sostenendo i relativi costi, ma si vedevano anche costretti a mantenere soggetti perfettamente in grado di lavorare e, dunque, di automantenersi.
Non avendo avuto il legislatore né la voglia né il coraggio di porre rimedio, ancora una volta ci ha dovuto pensare la magistratura, già intervenuta in sede di merito e di legittimità per calmierare l’importo dell’assegno riconducendolo nell’alveo della ragionevolezza, dando una chiara interpretazione alla normativa in tema di mantenimento non più dovuto incondizionatamente ma solo alla presenza di determinate condizioni.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA