Diciamolo pure: la pulizia di molti tratti della Plaia – violentata d’inverno con le acque provenienti dai siti industriali e a stento preservata durante il periodo estivo – lascia davvero a desiderare. E anche se c’è chi, mettendo mano al portafogli, si impegna per far sì che l’area ottenuta in gestione possa quanto meno garantire agli ospiti livelli di igiene decorosi (pur consapevole che proprio una parte di tali ospiti si “ingegnerà” per vanificare anche tale lodevole impegno), c’è pure chi pensa che sbracciarsi serva a poco e che, di conseguenza, possa bastare anche il minimo indispensabile, in termini di pulizia, per mettersi con la coscienza a posto. Che alla fine, quanto meno, ne guadagneranno le personali finanze. Sbagliato. Altroché. Il rischio in questo caso, infatti, è quello di ritrovarsi con una condanna sul groppone, con tanto di indennizzi da pagare. Esattamente quel che è accaduto pochi giorni fa all’Università di Catania, riconosciuta dal Giudice di pace responsabile in relazione a un episodio avvenuto il 26 agosto del 2018.
Quel giorno una coppia di amici – li chiameremo Alessandro e Roberto, entrambi trentenni – decise di recarsi alla Plaia per trascorrere una giornata di mare e di sole. E per far questo approfittò del tratto di spiaggia libera adiacente il Lido Università.
Neanche il tempo di stendere i propri teli che per i due ogni proposito di divertimento fu subito accantonato: Alessandro avvertiva un dolore al piede destro e constatava di essere stato punto da un ago per siringa da insulina, affiorato dalla sabbia, che qualcuno chissà quanto tempo prima aveva lasciato in quel punto della spiaggia.
Un ago arrugginito, che poteva determinare nel poveretto svariate problematiche di salute: tetano, certo, ma anche Hiv ed Epatite, atteso che era assai probabile che quella siringa da insulina fosse stata utilizzata da un tossicodipendente arrivato lì – ripetiamo, chissà quanto tempo prima – magari col buio, in cerca di una propria intimità.
Recatosi in compagnia di Roberto in Guardia medica e poi nell’ospedale Garibaldi Centro, Alessandro, dopo inevitabile lunga attesa, veniva sottoposto a visita e accertamenti diagnostici, con conseguente somministrazione di farmaci antitetanici e antibiotici. Quindi la precisa raccomandazione: da quel giorno e nei sei mesi successivi l’uomo avrebbe dovuto seguire uno specifico protocollo sanitario, con prelievi di sangue cadenzati, al fine di verificare l’evolversi del quadro sierologico ed escludere l’insorgenza di infezioni batteriche o virali quali tetano, epatite B o C ed Hiv.
Alla luce di tutto ciò, preoccupato per la propria salute ma anche indignato per l’accaduto, Alessandro decideva di recarsi in questura e di denunciare i fatti, segnalando i rischi connessi alla frequentazione di una spiaggia libera, accessibile ogni giorno a decine di famiglie con bambini e del tutto priva di adeguati standard di pulizia e manutenzione.
Nei mesi a seguire, segnati da preoccupazioni ma anche da un esborso economico evidente, Alessandro aveva la certezza di non avere subito problematiche che potevano comprometterne lo stato di salute e, a quel punto, pensava di ottenere una giusta riparazione del danno che gli era stato indirettamente arrecato. Il soggetto responsabile dell’area veniva individuato, dopo una serie di accertamenti svolti attraverso l’assessorato regionale del Territorio e dell’Ambiente, nonché attraverso la “S.T.A.” (Struttura Territoriale dell’Ambiente di Catania), nell’Università di Catania e nel suo rappresentante pro tempore. Che però, sollecitato dall’avvocato Lisa Gallo, del Foro di Catania, si è ben guardato dal dare seguito alle richieste risarcitorie.
Si è resa necessaria, così, la citazione in giudizio, conclusa appena pochi giorni fa con sentenza del giudice di pace Marina Di Gregorio, la quale, concordando sulla circostanza che il tratto demaniale in questione era “custodibile” , ha condannato l’Università al pagamento di quattromila euro in favore di Alessandro e, ovviamente, alle spese legali.
Il giudice ha pure risolto un ulteriore contenzioso fra Unict e la compagnia assicurativa che l’ateneo riteneva dovesse comunque provvedere al risarcimento. Anche in tale circostanza l’università ha avuto torto, perché a prescindere da tutto il contratto prevedeva una franchigia di quindicimila euro che in tale circostanza non è stata chiaramente raggiunta.