Catania
Catania ai tempi dei “Falchi”, un ex poliziotto racconta
Catania – «I “miei tempi”? Erano altri tempi…. La mafia nemmeno sapevamo cosa fosse e in città si faceva a gara quando si trattava di stendere una cortina fumogena su un fenomeno poi emerso in tutta la sua drammaticità: i vertici delle forze dell’ordine, la magistratura, gran parte della stampa. Tutti evitavano la parola mafia… L’importante è che non si verificassero omicidi: se non c’erano morti non c’era allarme sociale. Un po’ quello che sta accadendo oggi, con il fuoco che, però, cova sotto la cenere. Soltanto che oggi la consapevolezza è diversa e lo Stato è più attrezzato a rispondere e, naturalmente, a contrattaccare. Credo si possa essere decisamente più fiduciosi». A parlare è Pino Vono, uno degli storici componenti della squadra dei “Falchi”, autore del libro di recente pubblicazione “I Falchi nella Catania fuorilegge”. Ormai pensionato, Vono è una miniera di aneddoti che, però, lasciano spesso l’amaro in bocca. Come quando afferma di essere stato spesso mandato, lui con i suoi colleghi, allo sbaraglio: «Noi, provenienti da altre regioni, la mafia catanese abbiamo cominciato a conoscerla a poco a poco, ma questo “quadro” era già bell’e definito da tempo. E sono certo che molti nostri superiori sapessero. Queste persone avevano l’obbligo morale di addestrarci, informarci, istruirci su quel che c’era fuori. Non l’hanno mai fatto e ancora oggi mi chiedo perché».
«Di sicuro – chiosa – siamo stati fortunati. Forse c’era un orientamento a non colpire gli operatori di polizia, nonostante qualche episodio di notevole gravità come il tritolo piazzato nell’auto del mio storico collega Angelo Panebianco o come l’attentato alla caserma dei carabinieri di Gravina; credo che se avessero voluto spazzarci, però, avrebbero potuto farlo in tutta tranquillità».
I nemici non erano soltanto “fuori”, fra l’altro….
«Sembra proprio di no. E questa è una cosa che non potrò mai perdonare a chi è stato colto in fallo».
A lei lo disse anche l’allora boss dei cursoti Angelo Barbera.
«Uno che si sapeva comportare, che non manifestava arroganza e che non eccedeva nella confidenza. Quando lo uccisero fui fra i primi a intervenire e lui, in punto di morte, mi riconobbe e mi disse di guardarmi da chi lavorava in questura: non molto tempo dopo anche il sottoscritto sfuggì a un attentato, per puro miracolo. In quel caso, invece di avvertire la presenza dello Stato mi resi conto che in troppi preferivano pensare alla carriera e a giocare a scaricabarile. Non mi arresi e tornai a fare quello che ho sempre fatto: combattere la mafia, contrastare il narcotraffico, stanare i latitanti».
Un aneddoto, a proposito di latitanti, riguarda anche Nitto Santapaola.
«Quando arrestammo il fratello del boss, Giuseppe, trovammo un rullino fotografico che fu fatto sviluppare: c’erano le foto di Santapaola con la moglie in una misteriosa località balneare; c’erano tante altre cose e tanti altri personaggi interessanti…. Quelle foto, che a noi sarebbero potute servire nelle ricerche, finirono non so in quale cassetto. Vennero tirate fuori tanto tempo dopo da Giovanni Falcone».
Questi sono passaggi importanti della vostra storia di “Falchi”, che è fatta però anche di tanta controversa quotidianità.
«Impossibile nasconderlo. Però, pur considerando che sono stati commessi degli errori, qualcuno ha voluto eccedere nei racconti contro di noi. Quella degli anni Settanta, Ottanta e anche Novanta era una Catania ben diversa da quella attuale: c’era gente che non ci pensava su due volte quando doveva premere il grilletto e sparare contro un poliziotto. E in tante occasioni si sono verificate sparatorie fra colleghi oppure con i carabinieri…. Era un altro mondo e c’è stata gente che ha pagato con la vita».
Qualcun altro pure con il carcere.
«Non giustifico nessuno. Qualcuno si è sentito onnipotente e ha agito in maniera superficiale; peggio ha fatto, però, chi faceva da palo ai rapinatori o ha trasportato armi».
Si racconta che i “Falchi” prima ti prendevano a ceffoni e poi ti chiedevano i documenti anche nel corso di un normale controllo.
«Eravamo risoluti, ma questo accadde specialmente nei primi mesi della nostra attività, quando la gente ci trattava con arroganza, disprezzo e violenza. Poi, dopo i primi nostri raid, finì che dove andavamo si facevano trovare con il documento in mano e si sottoponevano al controllo. A quel punto non c’era motivo di essere violenti».
C’era un quartiere in cui andava più o meno volentieri?
«Catania per noi era tutta uguale, però è indiscutibile che San Cristoforo abbia rappresentato la culla della malavita. Nel giro di 500 metri quadrati ti potevi imbattere in Santapaola, Laudani, Cappello, Mazzei, Ercolano, Ferrera, Ferlito…. Credo che queste citazioni possano bastare per comprendere quel che dico».
Ricorda il primo e l’ultimo arresto?
«Il primo non lo ricordo affatto, ma posso dirvi che l’ultima attività investigativa che mi ha visto protagonista, quando l’allora dirigente della squadra mobile era Alfredo Anzalone, fu legata all’omicidio di Domenico La Spina, allora personaggio di vertice del clan Santapaola. Stilai l’informativa col collega Nello Cassisi e scattò un’ondata di oltre cinquanta arresti».
L’episodio che ancora oggi la turba di più?
«La morte del collega Maurizio Rocco Marramao per infarto. Eravamo come fratelli e ce lo siamo visti morire davanti mentre ci preparavamo a un’attività investigativa a Pedara. Lì ho capito che non sempre lo Stato gratifica i propri servitori: alla moglie trovammo noi “Falchi” un lavoro grazie alla generosità di un imprenditore catanese; il figlio, perché sovrappeso, fu invece scartato dal concorso in polizia…. Fu un pugno nello stomaco per tutti noi e ancora oggi, talvolta con rabbia, mi chiedo come fu possibile abbandonare quella famiglia».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA